lunedì 15 giugno 2015

Sessualità, desiderio, dipendenza.Tratto da una intervista di Paola Emilia Cicerone alla dottoressa Annalisa Pistuddi, pubblicata sul settimanale L’Espresso, 2007

C’è chi ha speso un patrimonio con le prostitute e chi manda all’aria un matrimonio perché non può fare a meno di portarsi a letto altre donne, qualunque donna, in qualsiasi momento. Chi lascia il posto di lavoro per salire sull’autobus a molestare le passeggere, chi rinuncia alla vita sociale per dedicare tutto il suo tempo alla pornografia, in dvd o su Internet. E chi arriva allo stupro o ai rapporti con minorenni. È il profilo dei sessodipendenti, di chi soffre di sexual addiction. Un disturbo noto fin dal XIX secolo: fu Richard von Krafft Ebing a descriverlo nel 1886. E oggi più diffuso di quanto si pensi: “I dipendenti da sesso sono quasi il 6 per cento della popolazione, in stragrande maggioranza uomini”,spiega il sessuologo Franco Avenia che cura insieme alla psicologa Annalisa Pistuddi il ‘Manuale sulla Sexual Addiction’ in uscita per i tipi di Franco Angeli. Un libro a più voci, “il primo di questo genere in Italia”, come sottolineano gli autori, per fare ordine in una materia complessa quanto inquietante. E fornire agli operatori strumenti adeguati per individuare un fenomeno spesso sottostimato.

A partire da un identikit dei dipendenti, che nasce da un’indagine promossa dall’Associazione italiana per la ricerca in sessuologia (Airs): si tratta in genere di maschi adulti in maggioranza single (ma c’è un’ampia quota di sposati) di cultura medio bassa, equamente distribuiti sul territorio nazionale. Apparentemente normali? “Spesso i sex addicted non sono socialmente riconoscibili come possono esserlo a volte i dipendenti da alcol o altre sostanze, magari non hanno ancora manifestato problemi evidenti di devianza o non hanno avuto problemi con la giustizia”, spiega Pistuddi: “Magari arrivano da noi manifestando disturbi della sfera sessuale, per esempio una disfunzione erettile. Precisando che non si verifica in rapporti con prostitute o con partner occasionali con cui non è necessario instaurare una relazione sentimentale. E solo in un secondo tempo emerge dal racconto la dipendenza da sesso”. Di solito a chiedere aiuto sono uomini, “perché sono più numerosi”, precisa la psicologa, “o anche perché le donne riescono a convivere con il disturbo senza compromettere la loro quotidianità”.
“I pazienti vanno dal sessuologo quando capiscono che la dipendenza non è più gestibile, che gli ha sconvolto la vita, compromettendo le relazioni personali e il lavoro, danneggiandoli economicamente”, spiega Avenia. Il problema sta lì: “La dipendenza da sesso non ha niente a che vedere con un sano appetito sessuale, è un impulso irrefrenabile che condiziona la vita e genera sofferenza se non è soddisfatto”, prosegue il sessuologo: “Krafft Ebing oltre un secolo fa sottolinea come il desiderio sessuale diventi il centro della vita del soggetto dipendente”. Per anni, però, la psichiatria ha accantonato l’argomento, fino alla fine degli anni ’80 quando è tornato alla ribalta con la nascita negli Usa del National Council of Sexual Addiction. “Ci sono diversi fattori che hanno contribuito a fare emergere il fenomeno”, prosegue Avenia: “Viviamo in una società in cui il sesso ha un ruolo sempre più importante, sia a livello personale che di comunicazione, e c’è una forte pressione sociale che spinge le persone a identificarsi con il proprio comportamento sessuale”.
Si tratta di una malattia del nostro tempo, come la dipendenza da Internet. Un fenomeno complesso che può sfuggire a una precisa collocazione: alcuni ricercatori infatti parlano di vera e propria dipendenza; e così la sexual addiction potrebbe essere prossimamente classificata nel ‘Dsm’, il manuale che cataloga tutti i disturbi psichici. Altri mettono in risalto l’aspetto compulsivo. In ogni caso i sintomi di pericolo sono evidenti: la pervasività dell’impulso, l’impossibilità di controllarlo “e un ingiustificato disinteresse per le conseguenze, che può configurarsi come una alterazione cognitiva che porta a sottostimare problemi come le malattie sessualmente trasmissibili o le gravidanze, per citarne solo due”, precisa uno degli autori del manuale, lo psichiatra Ezio Manzato, componente della Commissione nazionale sulle dipendenze.
Cos’è che trasforma il sesso in una vera droga? Il parallelo è in qualche modo improprio: la droga è una sostanza estranea, il sesso un impulso fisiologico. “Forse l’analogia più corretta è quella con i disturbi del comportamento alimentare, come la bulimia, che non caso spesso si accompagna a una sregolatezza nel comportamento sessuale”, spiega Avenia. “La sexual addiction è una mancanza di controllo degli impulsi, che vediamo spesso manifestarsi insieme ad altre dipendenze, o anche a disturbi di ansia o dell’umore”, precisa Manzato. Per Martin P. Kafka della Harvard Medical School si tratterebbe invece di una disregolazione del desiderio sessuale, anomala deriva di quello che nei sani è un desiderio fisiologico. Causata da quella che Kafka ha ribattezzato l’ipotesi delle monoamine, per descrivere il ruolo giocato da queste sostanze – dopamina, adrenalina e serotonina – nel regolare impulsi e desideri. “Il segno distintivo di questa disinibizione, quello che le dà lo status di una condizione clinica”, sostiene lo psichiatra americano, “è la compromissione della volontà, la quantità di tempo sprecata in impulsi, attività e fantasie sessuali non relazionali e le conseguenze personali e psico-sociali sfavorevoli che l’accompagnano”. Si tratta di un disturbo che ha basi neurobiologiche, evidenziate sperimentalmente da Kafka in un modello animale: se si somministra a dei topolini castrati la paraclorofenilalanina, una sostanza che elimina la serotonina dal sistema nervoso centrale, questi sono portati a tentare compulsivamente l’accoppiamento. “L’orgasmo è una cascata di neurotrasmettitori (serotonina) e neuromodulatori (endorfine) che serve a mantenere l’equilibrio neurovegetativo, ristabilendo buonumore e limitando il dolore”, ricorda uno degli autori del manuale, lo psichiatra Fernando Liggio.
Il sesso non è l’unica fonte di queste sostanze, prodotte anche durante il sonno profondo e le crisi epilettiche. Fin qui però siamo nella fisiologia. “Il problema si pone con quanti perdono i controlli inibitori, probabilmente a causa di una carenza del neurotrasmettitore Gaba”, spiega Liggio. È in soggetti come questi che l’aumento di endorfine provoca un craving simile alla droga, in questo caso una droga endogena, generando un’assuefazione per cui la necessità di queste sostanze non si esaurisce. “Il nostro cervello è come una cabina di regia in cui una schiera di monitor consente di tenere sotto controllo e mandare in onda alternativamente diversi canali”, spiega Liggio: “Quando si verificano queste alterazioni, è come se il regista venisse a mancare e il monitor si bloccasse su un unico canale, quello del sesso”. Che per gli esseri umani, anche rispetto ad altre specie, ha comunque un’importanza particolare. “E questo per una precisa ragione evolutiva”, sostiene Liggio: “Siamo gli unici a renderci conto di quanto sia impegnativo, e in epoche lontane anche pericoloso, avere figli. Per garantire la sopravvivenza della specie si sono selezionati individui particolarmente ricchi di corpuscoli di Krause, le terminazioni nervose che aumentano la percezione del piacere”.
Il che non esclude che la sexual addiction abbia una componente culturale. “Il confine di ciò che è normale si sposta, atti sessuali oggi accettati da tutti fino a vent’anni fa erano catalogati nel ‘Dsm III’ come perversioni”, ricorda Avenia: “Siamo passati da una cultura sessuofobica a una sessuofila”. Anche se il disturbo può presentarsi a livelli diversi di gravità, e in forme diverse, il rischio è comunque presente. “Il problema nasce dalla tendenza di questi soggetti a minimizzare le possibili conseguenze delle loro azioni”, spiega Avenia. Nei casi meno gravi si tratta di rapporti non protetti, di avances pesanti. O di comportamenti che possono portare grave imbarazzo: “Ricordo un uomo che provava un irresistibile impulso a mostrarsi nudo dalla finestra, dovunque fosse”, precisa il sessuologo.
La ricerca ossessiva di un partner sessuale può portare anche a comportamenti rischiosi o illegali, a molestie come il frotteurismo (lo strofinamento dei genitali su una persona non consenziente), perfino allo stupro. E nei casi più gravi si associa a parafilie, il termine che oggi definisce quelle che un tempo si chiamavano perversioni, come la pedofilia. Studi americani mostrano che il 55 per cento di soggetti con dipendenza da sesso commette con molta frequenza reati a sfondo sessuale. “Anche un’indagine tra i detenuti tossicodipendenti del carcere di Opera a Milano indica una dipendenza da sesso doppia rispetto alla media nazionale”, rivela Pistuddi: “Il dato interessante, oltre all’intreccio fra dipendenze (sostanze e sesso), è in alcuni casi anche la connessione con la pericolosità sociale e la marcata esposizione al rischio di queste persone”. Si tratta comunque di una patologia multifattoriale, “che ha probabilmente alla base una vulnerabilità neurobiologica, cui si aggiungono esperienze vissute – per esempio avere subito abusi sessuali nell’infanzia – e fattori ambientali”, spiega Manzato. Anche il partner può avere un ruolo importante nel contenere o nello scatenare il disturbo: “È chiaro che se chi soffre di sexual addiction ha un partner con un atteggiamento di rifiuto nei confronti del sesso, il problema può acuirsi, così come quando entrambi i partner hanno problemi di dipendenza”.

Per questo a volte si punta su una terapia di coppia, oppure si trattano indipendentemente entrambe i partner. “Le terapie di coppia si sono rivelate efficaci, così come la psicoterapia individuale a orientamento psicoanalitico, che prende in considerazione non solo il sintomo della dipendenza, ma anche la struttura di personalità e i disturbi correlati”, dice Pistuddi. Spesso però è necessario integrare la terapia con un supporto farmacologico. In molti casi si usano gli Ssri, antidepressivi come la fluoxetina, ma anche farmaci antipsicotici. “Il rischio è che i pazienti si vedano guariti una volta contenuti i sintomi”, aggiunge Manzato. Ma in altre dipendenze con caratteristiche simili, come i disturbi dell’alimentazione, le tecniche di neuroimaging continuano a mostrare un’alterazione dell’attività cerebrale anche dopo un trattamento concluso con successo. In altre parole, una pillola non basta, “ritrovare un equilibrio si può”, conclude lo psichiatra: “Ma i tempi sono inevitabilmente lunghi”.

giovedì 11 giugno 2015

LA SCIENZA A SCUOLA DELLA TRADIZIONE



Di Gianlorenzo Masaraki
 “Le  piante usate dalla tradizione indonesiana contro i disturbi nervosi” è una documentazione sperimentale che è stata offerta alla sezione di antropologia medica dell’Istituto Riter (coordinata dalla dottoressa Maria Elena Pallaroni)  nel corso di un viaggio di studio. Viene pubblicata per la prima volta in questa occasione.
Le piante sono state studiate nel dipartimento di Farmacia di uno dei prestigiosi istituti di ricerca dell’Isola di Giava: l’Istituto di tecnologia di Bandung.
Si tratta, riteniamo, di un raro esempio che ci perviene dall’estero di uno “studio ufficiale” sui rimedi proposti dalla medicina tradizionale.[1]
Con l’occasione può quindi essere utile qualche considerazione introduttiva che permetterà al lettore di inquadrare più agevolmente questo contributo nel contesto in cui è nato.
In Indonesia negli ultimi anni il governo ha dato un grande impulso allo studio dei rimedi proposti dai guaritori tradizionali. In accordo con i programmi della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità che prevedono un’ampia rivalutazione e valorizzazione di pratiche di cura ingiustamente private in passato di una loro dignità scientifica.
A livello operativo in genere viene applicato un modello di intervento come ci è stato spiegato dal prof. Nico Kalangi, antropologo medico dell’Università di Jakarta che prevede la presenza contemporanea sia a livello di studi che di assistenza clinica, di un guaritore tradizionale (in indonesiano: “Dukun” e Calah”) e di un medico di formazione occidentale.
Campi preferenziali di intervento sono quelli legati al parto e alla pediatria.
I “Dukun” in particolare sarebbero eredi delle tradizioni di cura e assistenza al parto mentre i “Calh” sono da sempre depositari delle tecniche di circoncisione e delle norme di pericultura.
Ma venendo più propriamente all’argomento di cui tratta la professoressa Joke Wattimena, che ha diretto questa ricerca, è importante sottolineare come nella tradizione indonesiana molto spesso le sostanze naturali vengono combinate tra di loro in un composto denominato “Jamu”.
I dosaggi e le proporzioni dei vari ingredienti sono molto spesso dei segreti custoditi gelosamente da generazioni e tramandati all’interno di ristretti ambiti iniziatici come accadeva nelle corti e nei sultanati indonesiani.
Quindi l’esame degli effetti terpautici di una sola sostanza vegetale non offre in realtà che una parziale visione dei benefici che si possono ottenere con questi trattamenti.
Ma credo valga anche la pena di ricordare come la farmacopea occidentale che conosce da tempo molte sostanze della tradizione orienatle, ne abbia fatto un uso improprio. Ignorando infatti che ci si trova di fornte ad un “piccolo microcosmo” di eventi integrati, nella esasperata ricerca di un “principio attivo” da isolare spesso si è perso il significato terapeutico originario attribuito a queste sostanze da un’esperienza millenaria.
Basti l’esempio della Rauwolfia, presente non solo nella tradizione indonesiana ma anche in quella indiana e Tibetana.
In occidente è stato in particolare utilizzato un alcaloide della “Rauwolfia Serpentina”, meglio nota come “Reserpina”, una pianta usata anticamente in oriente come antidoto al velendo dei serpenti.
Questa sostanza possiede, tra gli altri, due effetti clinici importanti: un’efficacia riconsosciuta negli stati di eccitazione psichica e nell’ipertensione arteriosa.
“Una doppia faccia” che in qualche modo ha deciso il destino  del suo disuso in occidente.
Studiata in Svizzera intorno agli anni ’30, venne inserita nel prontuario terapeutico di molti paesi occidentali nel decennio successivo come prodotto di sintesi.
Utilizzata inizialmente dagli psichiatri per i suoi effetti sedativi passò poi “di mano” e venne quasi esclusivamente prescritta in ambito internistico come ipotensivo.
Gli psichiatri finirono infatti per abbandonarne lentamente l’uso sia per l’avvento di nuove molecole efficaci, sia per i gravi effetti collaterali di tipo ipotensivo.
Ma altrettanto fecero gli internisti in tempi più recenti dal momento che si trovarono ad affrontare un altro effetto “collaterale” indesiderabile.
Nei pazienti trattati si manifestavano infatti gravi crisi depressive con caratteristiche così impegnative  da configurare una “sindrome suicidaria da reserpina”.
E’ curioso notare come una sostanza (trascurando, per  semplificare, il fatto che si tratti in questo caso di una molecola di sintesi) utilizzata da centinaia di anni, con grandi benefici, da culture con una concezione psicosomatica dell’uomo ammalato, abbia fallito nell’impatto con una cultura medica rigidamente separata in ambiti specialistici per la mente e per il corpo.
In realtà quelli che in occidente sono stati preposti come effetti “collaterali” sono parte di quel corredo di efetti che si rivelano nella loro più completa validità solo ad una lettura “psicosomatica”” della Rauwolfia Serpentina.
Oggi sono ormai molte le sostanze naturali che vengono utilizate come presidi di cura grazie anche ad un contatto sempre più esteso con le culture orientali. Spesso però non arrivano i benefici promessi e molti rimedi vengono abbandonati lasciando spazio a  presidi di più immediata efficacia ma anche, spesso, di maggiore tossicità.
In realtà dalle tradizioni di cura dovremmo mediare non solo “principi attivi” ma anche una “lettura” differente delle sostanze terapeutiche derivate dalle piante. Le erbe, come ricorda un’antica formula indiana, hanno infatti mente e un corpo.
Erbe, Secondo Natura, dicembre 1986


[1] “In Oriente è tradizione di cura ciò che risulta identificabile come dato di esperienza trasmesso da generazioni (di guaritori) per comunicazione prevalentemente orale, “da bocca a orecchio” come affermano gli stessi esponenti di questi orientamenti di cura.”