mercoledì 16 dicembre 2015

Storia enciclopedica della fortuna della nutella nel mondo

E se si fosse chiamata SuperNut, oppure Nutosa, o Nutola, o anche Nusty, come sarebbe potuto succedere, avrebbe avuto lo stesso successo? Domanda oziosa: la Nutella è Nutella anche perché si chiama così. Se non avesse avuto nome Nutella, sarebbe stata un’altra cosa. Punto. Quando Michele Ferrero lo ha scelto, era ovviamente speranzoso, ma certo non si rendeva conto che il 20 aprile 1964 sarebbe uscito dalle linee della sua azienda il primo dei barattoli di un prodotto destinato a diventare uno dei più clamorosi successi industriali di sempre, e non solo nel settore alimentare. Oggi nel mondo Nutella significa made in Italy quanto Ferrari. Non a caso le Poste italiane ne celebrano il cinquantenario emettendo un francobollo in suo onore, accanto ad altri due che ricordano i 450 anni dalla nascita di Galileo e dalla morte di Michelangelo.
La Nutella è figlia dell’ostinazione, della tenacia di Pietro Ferrero di ottenere un cioccolato a basso costo che potesse diventare la merenda dei bambini: il Giandujot del 1946 è il papà della Nutella. Il nonno, invece, è il cosiddetto pastone; i Ferrero lo producevano fin dal 1925 ed era nato per sostituire il pomodoro e il formaggio che i carpentieri e i muratori torinesi accompagnavano al pane nella pausa di mezzogiorno.
Se la Nutella ha una data di nascita ben precisa, la storia del rapporto tra Torino e la cioccolata risale a qualche secolo prima. Emanuele Filiberto, duca di Savoia, dopo esser stato al servizio di Carlo V e di Filippo II, rientra nel 1557 da Madrid a Chambery e tre anni più tardi trasferisce a Torino la capitale del suo stato. Assieme alla corte sabauda, giunge al di qua delle Alpi una novità da poco arrivata dall’America: la cioccolata. Un secolo dopo Torino diventerà un importante centro di produzione di cioccolato, capace di esportarlo in mezza Europa. Dalla vicina Svizzera numerosi pasticceri vengono nella città sabauda per imparare l’arte cioccolatiera, compreso un certo François-Louis Cailler che nel 1819 rientra a Corsier, sul lago di Ginevra, dove fonda uno stabilimento (la società Cailler esiste ancor oggi) e mette a punto un composto morbido che gli permette di ottenere per primo un prodotto destinato a cambiare la storia del cacao: la tavoletta di cioccolato.
Nel frattempo l’Europa, e l’Italia, sperimentano il blocco commerciale imposto dalla Gran Bretagna al continente controllato da Napoleone. Il cacao non arriva quasi più, quel poco che c’è si trova a prezzi da gioielleria: i cioccolatieri sono costretti a spremersi le meningi per non chiudere. Quelli di Torino cominciano a guardarsi attorno. Non tanto lontano, sulle colline delle Langhe, si raccolgono quintali di nocciole di cui nessuno sa bene cosa fare. Non è che si possa sostituire, almeno in parte, il cacao con le nocciole? Sì che si può. All’inizio questa specie di cioccolato di guerra si produce con nocciole a pezzetti, finché a Michele Prochet nel 1852 non viene l’idea di mescolare al cacao le nocciole tostate ridotte in polvere finissima. Il nuovo cioccolato/nocciolato viene lanciato sul mercato durante il Carnevale del 1865 distribuito – oggi i pubblicitari direbbero «testimonial d’eccezione» – ai torinesi dalla più celebre maschera della città: Gianduja. Così nasce il gianduiotto e anche a questo prodotto va ascritto un record: quello di diventare il primo cioccolatino confezionato singolarmente (in precedenza i cioccolatini venivano tagliati a mano da un pezzo di cioccolato più grande). Nel 1878 la Prochet si fonde con la Caffarel, tuttora uno dei più importanti produttori di gianduiotti.
Pietro Ferrero nasce nel 1898 a Farigliano, un paesino piemontese della provincia di Cuneo. Sarà lui a fondare, nella cittadina di Alba, la Ferrero, oggi il terzo gruppo dolciario del mondo, dopo Mars e Nestlé, un colosso da quasi 8 mila miliardi di euro di fatturato, 15 stabilimenti produttivi e 22 mila dipendenti in tutto il mondo. Sarà lui a inventarsi con caparbietà galileiana – ovvero provando e riprovando – i prodotti che poi consentiranno di dare vita alla Nutella, anche se non la vedrà mai di persona perché morirà d’infarto nel 1949 (e una morte prematura per infarto coglierà anche suo nipote Pietro, nel 2011: per due volte la Ferrero viene privata nello stesso modo di un capo di nome Pietro). Si presume che la Nutella conti da sola circa la metà della produzione Ferrero, ma sono dati difficilissimi da acquisire, questi, perché una caratteristica dell’azienda piemontese è quella di mantenere una segretezza degna dei tempi della guerra fredda. Michele Ferrero, l’attuale presidente, nato nel 1925, nella sua lunga esistenza non ha mai concesso un’intervista, salvo una, pubblicata nel 1967 in un libro, e nemmeno firmata, nel miglior stile Ferrero. Peccato, perché quel giornalista anonimo probabilmente non lo sapeva, ma aveva fatto uno scoop non da poco, facendo parlare l’uomo che non dichiara mai.
Michele così ricorda papà Ferrero: «mi spedì ad Alessandria con un camioncino. Avevo venti chili di cioccolato e sei pneumatici di scorta. Allora bucare era facile, le gomme erano sempre logore. La “missione” andò benissimo: non feci fatica a vendere e incassai le prime mille lire della mia vita. Poi passai ad Aosta e da lì a Genova. Quando cominciai a divertirmi – dico divertirmi perché vendere non era davvero faticoso – mio padre mi richiamò in fabbrica. Da noi c’era sempre più lavoro che braccia per lavorare. Anch’io ero necessario.»
Oggi è l’uomo più ricco d’Italia (qualche anno fa era stato scalzato da Silvio Berlusconi, ma poi si è ripreso il primato) e il 25° al mondo, secondo la classifica stilata dal periodico americano Forbes. Nei confronti della Ferrero vale la definizione che il premier britannico Winston Churchill coniò nel 1939 per l’Unione sovietica: «Un indovinello avvolto in un mistero dentro un enigma» dove l’indovinello è costituito da ciò che realmente la Nutella contenga, l’enigma sta nel perché una cioccolata in scatola abbia avuto più successo nel conquistare il mondo delle portaerei americane, e il mistero è quello che la Ferrero mantiene attorno al suo prodotto (chi conosce gli ingredienti esatti della Nutella non può, per contratto, abbandonare la provincia di Cuneo).
E così come esistevano i cremlinologi che per capire i cambiamenti interni dell’Urss studiavano le posizioni dei leader sovietici durante le parate celebrative della Rivoluzione d’ottobre, così oggi ci sono attenti osservatori che monitorano ogni mossa dell’azienda di Alba. La massima autorità dell’odierna nutellologia è un giornalista, Gigi Padovani, che ha a lungo lavorato per il quotidiano di Torino, La Stampa. È riuscito a farsi ammettere nelle segrete stanze del Cremlino di Alba. La notizia è che ne è pure uscito, e poi ne ha potuto scrivere. Le righe che state leggendo hanno come fonte principale i suoi libri. E non potrebbe essere altrimenti.
Pietro Ferrero tra le due guerra va a Torino, dove apre una pasticceria. Negli anni Venti il suo prodotto di punta è il “pastone”, un cioccolato economico da mettere nel pane che sfrutta la voglia di dolce degli operai delle industrie torinesi. Il cioccolato, in Italia, viene a lungo considerato – e in parte lo è ancora – come un cibo peccaminoso. In un paese cattolico dove i piaceri sono stati per molto tempo interdetti, il consumo di cacao resta legato al senso di colpa (l’Italia, con meno di tre chili a testa è soltanto al quindicesimo posto in Europa per consumo di cioccolato; al primo c’è la Svizzera, con undici chili per abitante ogni anno). Inoltre il dolce costituisce un premio: anche ai nostri giorni si danno ai bambini caramelle per gratificarli. L’idea di Ferrero era che se fosse riuscito a fornire un prodotto dolce a basso prezzo, gli operai lo avrebbero preferito alle imbottiture salate per i loro panini. La traduzione pratica di questa idea, ovvero il “pastone”, funziona e, se ci si pensa, ancor oggi, a quasi novant’anni di distanza, la Nutella è un cioccolato che si mangia sul pane.
Il negozio di Torino, tuttavia, viene liquidato nel 1940, dopo i primi bombardamenti che colpiscono la città, e Ferrero due anni più tardi apre un laboratorio ad Alba, cittadina delle Langhe, in provincia di Cuneo, nota anche per il barolo e il tartufo.
Qui Pietro Ferrero si mette al lavoro per ottenere un prodotto in grado di essere usato nelle merende dei bambini. I più piccoli sono il suo obiettivo: ci saranno sempre bambini a cui dare la merenda, quindi se si fosse riusciti a confezionarne una adatta, il successo commerciale sarebbe stato garantito. Durante la guerra il cacao costa carissimo, lo zucchero è difficile da trovare, l’unica cosa che non manca sono le nocciole. Anzi, la tonda gentile delle Langhe, la varietà locale, negli anni duri del conflitto serve per produrre olio, visto che dalla Liguria non arriva quello d’oliva, mentre i gusci svolgono magnificamente il loro dovere, qualora vengano bruciati nelle stufe. La maggior parte delle nocciole, tuttavia, è accumulata nei magazzini: era stato stabilito un prezzo imposto e nessuno le coltiva più. Ferrero compra tutte le nocciole che trova, esaurisce le scorte, incita i contadini a rimettere in produzione i noccioleti abbandonati e a piantarne di nuovi.
In ogni caso il prodotto ricavato con quelle nocciole è buono nel gusto, ma difficilmente utilizzabile per farne una merenda: è troppo duro. Bisogna trovare il modo di ammorbidirlo.
Pietro Ferrero non è certo tipo da arrendersi, rimane giorni, mesi anni, a rimestare nel suo laboratorio, sempre con un camice bianco indossato sopra pantaloni e gilet, tanto che in paese lo chiamano «lo scienziato». E, come si sa, non ci vuol molto perché accanto al sostantivo scienziato si appiccichi l’aggettivo pazzo. Invece a Ferrero arride il successo: nell’autunno 1945, o all’inizio del 1946 – la guerra è finita da pochi mesi – ritrova su uno scaffale un dimenticato barattolo di burro di cacao. Lo aggiunge all’impasto e… eureka (ho trovato) avrebbe detto Archimede.

Cover GENIO BASSA

Eccola là, una pasta bella morbida, che si può fare a fette, che sa di cioccolato, ma soprattutto, che costa pochissimo. Nell’Italia stremata dalla guerra nessuno ha soldi da buttar via in dolcezze e voluttà. Gli ingredienti sono più o meno quelli odierni: zucchero, nocciole, grassi vegetali e cacao.Per Alba poi, è una vera boccata d’ossigeno: la cittadina aveva conosciuto la durezza dei combattimenti, era stata repubblica partigiana per ventitré giorni, tra il 10 ottobre e il 2 novembre 1944, e quando i fascisti tornano in forze, la repressione è durissima. Finita la guerra, l’unica possibilità di trovare lavoro è emigrare. Quindi, la voce che un laboratorio dolciario cerca operai, quattro-cinque, per il momento, costituisce il segnale che qualcosa sta davvero cambiando.
Trascorre ancora qualche mese e il prodotto entra in commercio. Il nome? Va benissimo quello del cioccolato con le nocciole; anzi, visto che c’è, Ferrero fa disegnare sulla carta della confezione la faccia sorridente di Gianduja che abbraccia un bambino. Il Giandujot, o Pasta gianduja, arriva nei negozi nel 1946 e costa 4-5 volte meno del cioccolato tradizionale; nocciolato è la scritta sulla confezione. Si tratta di una specie di marmellata solida in pani avvolti nella stagnola che si vende a peso.«Era il prodotto giusto, al prezzo giusto, al momento giusto», ricorderà, anni dopo, Piera Cillario, moglie di Pietro.
Come Ferrero aveva previsto, il Giandujot va subito fortissimo. Le prime forniture spariscono in un battibaleno. Il problema, ora, è tener dietro alle richieste sempre più pressanti. Poco tempo dopo, monsù Pietro, come in piemontese veniva chiamato, ha pure un’ulteriore idea: distribuire il prodotto in confezioni monodose. Nasce così il cremino, un cioccolatino popolare ancora ai nostri giorni. Una ex dipendente, tra i primissimi assunti, ricorda così i Ferrero: «Non erano ricchi, hanno avuto la costanza di non mollare mai.»
Ora però bisogna organizzare le vendite. A quello ci pensa il fratello di Pietro, Giovanni. Tanto il primo è schivo e riservato, tanto il secondo è vulcanico e gioviale. Salta nella sua automobilina (le automobilone, al tempo, quasi non esistevano) e va in giro prima per il Piemonte, e poi via via sempre più in là, a vendere il suo prodotto. Una volta a Milano, quando un grossista arriva in ritardo a un appuntamento e si ritrova a mani vuote perché nel frattempo i passanti, attratti dal delizioso profumino del Giandujot, gli hanno già svuotato l’auto, a Giovanni Ferrero viene un’idea: vendere direttamente, saltando i grossisti. Comincia con due furgoni aziendali che via via crescono: gli automezzi che girano per l’Italia nel 1947 sono 12, 804 nel 1955, 1642 nel 1960, nel 1966, dopo la nascita della Nutella, la Ferrero dispone di oltre duemila veicoli.Il che permette a una pubblicazione interna di affermare che «della fine degli anni Sessanta, che il parco automobilistico dell’azienda era inferiore solo a quello dell’esercito.»
I furgoni passano per i negozi prima una volta ogni due settimane, poi una volta alla settimana; i dettaglianti non devono gestire alcun ordine: quel che serve viene consegnato al momento. Il furgone-treno per bambini, un veicolo lungo ben undici metri, un’attrazione che quando arriva manda in visibilio i ragazzini di tutta Italia, fa tappa persino a Venezia, in piazza San Marco.E c’è pure il recordman del volante: Giuseppe Tasso, classe 1908, reduce di due guerre, dal 1946 al 1966 si sciroppa la bellezza di due milioni di chilometri, neanche fosse un pilota d’aereo.
La fabbrica di Alba della Ferrero si ingrandisce sempre di più, ma rimane con i piedi ben piantati per terra. Gli operai non devono trasferirsi e andare a vivere vicino agli stabilimenti perché l’azienda organizza un servizio di autobus per andare a prenderli e riportarli indietro. Gli operai, pur assunti, possono rimanere a casa qualche mese per lavorare i campi; si crea così una curiosa figura di operaio-contadino già conosciuta tra i lavoratori di altre regioni, sopratutto tra i metalmeccanici che non rinunciano a coltivare la propria terra. A quelli che erano stati ribattezzati metal-mezzadri, si affiancano nel Cuneese i dolciar-mezzadri. Alba dà i natali al romanziere Beppe Fenoglio, che descrive la Ferrero in un romanzo, La paga del sabato, uscito postumo, nel 1969: «C’era già più di cento operai e operaie, in qualunque direzione guardassero, sembravano tutti rivolti verso il grande portone metallico della fabbrica, come calamitati.»Questa generale soddisfazione degli operai verso i datori di lavoro fa sì che la conflittualità sindacale alla Ferrero sia bassissima: il primo sciopero che si ricordi è del 1959, mentre nel 1971 – erano anni caldissimi, quelli – si registra uno sciopero con tafferugli e rinvio a giudizio di 42 dipendenti attivisti sindacali.Dopodiché si è scesi quasi a zero, anzi gli operai si presentano in massa per rimettere un sesto l’azienda sommersa da una rovinosa alluvione del fiume Tanaro, nel 1994. Intanto, la produzione di nocciole delle Langhe ovviamente non basta più produrre quantità crescenti di Nutella, la Ferrero le importa soprattutto dalla Turchia, dove organizza anche proprie piantagioni.
Ora torniamo al Giandujot: stiamo parlando di una pasta di nocciole al cioccolato, venduta in pani, e da tagliare a fette. Per renderla spalmabile, manca un ulteriore passo, ma non sarà Pietro, morto il 2 marzo 1949, a compierlo. Molto probabilmente l’artefice è l’attuale patriarca, Michele, che all’epoca ha 24 anni. In ogni caso in quell’estate del 1949, evidentemente molto calda, succede una cosa che avrebbe fatto disperare imprenditori meno capaci dei Ferrero: i pani di Giandujot si sciolgono per via della calura estiva. Qualcuno racconta che i dettaglianti, spinti dal genio della fantasia italica, si siano messi a vendere il Giandujot come una pasta spalmabile. Qualcun altro afferma che la pasta di nocciole e cioccolato si sia sciolta negli stabilimenti aziendali e che l’idea sia venuta lì dentro. Sia come sia, la Ferrero ritocca la formula: la pasta viena resa «più morbida, cremosa e subito spalmabile.»
A questo punto risulta molto simile all’attuale Nutella e viene venduta in bicchieri o barattoli di vetro. La chiamano Supercrema e quel che ancora le manca è un nome capace di farla diventare un mito. In ogni caso ha un enorme successo: i bambini adorano far merenda con una fetta di pane spalmata di crema al cioccolato, i genitori non si oppongono: è buona e costa poco. E sanno anche che quando danno ai loro figli una tavoletta di cioccolato e del pane, spesso il pane finisce per essere buttato via di nascosto e i ragazzini si mangiano soltanto il cioccolato. In questo modo il pane viene inscindibilmente legato al cioccolato. A sud di Napoli, si registra l’ennesima prova di fantasia imprenditoriale, i rivenditori organizzano la spalmata: i bambini arrivano in negozio con una fetta di pane in una mano e nell’altra cinque lire per una spalmata leggera e dieci per una più generosa. In tanti entrano così in contatto per la prima volta con la crema alla cioccolata e se poi sboccerà l’amore, continueranno pure gli acquisti.
Il segreto di quella spalmabilità sta negli oli vegetali. Se leggete gli ingredienti nell’etichetta, vedrete che non c’è il burro si cocco, componente fondamentale del Giandujot, bensì una non meglio precisata miscela di oli vegetali. Lì sta tutto: la Nutella si può spalmare grazie al cocktail di oli vegetali – “nx” in gergo aziendale – presente nell’amalgama che lo mantiene morbido. È il segreto meglio custodito della Ferrero: sono in pochissimi a conoscerne la formula, e chi ne è partecipe, come detto, deve rimanere a Cuneo. Mantenere il segreto ha anche un risvolto negativo: gli oli vegetali non hanno una buona fama, e c’è chi pensa che all’interno di quella dicitura si nasconda ogni nefandezza. Si sono intentate cause alla Nutella – lo vedremo – proprio sulla base di quei non precisati oli vegetali. La composizione della crema, in apparenza, è semplicissima: zucchero, cacao, oli vegetali, 13 per cento di nocciole.
La Ferrero intanto cresce: nel 1956 apre uno stabilimento in Germania, ad Allendorf, a 150 chilometri da Francoforte, e quattro anni più tardi avvia il secondo in Italia, a Pozzuolo Martesana, vicino a Milano. Intanto, nel 1957, lancia un nuovo prodotto, anch’esso destinato a un luminoso destino: il Mon chéri, un cioccolatino che racchiude all’interno una ciliegia al liquore che diventerà il più venduto della Germania federale: negli anni Sessanta, dieci all’anno per ogni tedesco, lattanti e centenari compresi.Nel 1957 muore Giovanni, pure lui d’infarto, e il timone aziendale passa interamente in mano a Michele che lo terrà fino al 1997, quando gli subentreranno i figli (ma ancora oggi Michele Ferrero dice la sua da Montecarlo, dove risiede, e dove l’azienda ha aperto un ufficio).
La Ferrero intanto naviga col vento in poppa, ma quel nome…, quel nome… Giandujot risulta ostico in Italia, figuriamoci all’estero; Supercrema è troppo lungo e non identifica il prodotto (potrebbe essere una crema di qualsiasi cosa). Inoltre, nel 1962, il parlamento italiano approva una legge che viene interpretata come un divieto di apporre prefissi accrescitivi ai nomi: niente più super, ultra, stra e poi qualcosa. La Supercrema ci ricade in pieno. Le spinte a trovare un nome più spendibile sul mercato arrivano soprattutto dalla filiale tedesca, ma nel quartier generale di Alba sono d’accordo e cominciano a spremersi le meningi. Le proposte si rincorrono, come detto all’inizio, ma alla fine sarà Michele Ferrero a scegliere.
Nutella tra i papabili doveva già esserci: il nome viene depositato il 10 ottobre 1963.Funziona: nut in inglese vuol dire noce e lo rende adatto al mercato internazionale, -ella in italiano è un diminutivo femminile e i diminutivi infondono sensazioni positive, come tenerezza, affetto, dolcezza. Inoltre è facile da pronunciare un po’ ovunque. Nessuno lo dice, ma il fatto di richiamare la mozzarella, ben conosciuta e identificata con un’eccellenza italiana, potrebbe aver giocato un suo ruolo. Quando la decisione è presa, viene brevettato un po’ tutto: l’accoppiata Nutella-Ferrero, la fetta di pane con la crema spalmata e il coltello, il barattolo dalla forma tondeggiante e allungata (ne parleremo, le confezioni sono inscindibili dal successo della Nutella).
Il 1964 per l’Italia è un anno particolare: si completa l’autostrada del Sole, che collega Milano a Napoli, viene aperta la linea due della metropolitana di Milano, Federico Fellini vince l’oscar con Otto e mezzo, Aldo Moro chiama i socialisti al governo e vara il centro sinistra. L’Italia si ritrova rinnovata e più ricca e la Nutella entra a pieno titolo tra i prodotti che segnano gli anni del boom.
Il 20 aprile di quel magico anno esce dalle linee di produzione della Ferrero il primo barattolo di Nutella. È destinato a cambiare il modo di concepire la merenda, e il mondo del cioccolato non sarà più quello di prima. Ferrero crea il mercato delle creme da spalmare in Italia, ma pure in Germania e Francia, dove non esisteva nulla del genere. Ora la Nutella è la lepre che tutti devono inseguire.
Al successo della crema di nocciola e cacao made in Alba concorrono un mucchio di fattori. La confezione, innanzi tutto. La Nutella viene venduta all’interno di bicchieri di vetro che, raccolti e messi assieme, finiscono per formare un servizio. Alcuni sono decorati con motivi geometrici, altri con personaggi dei fumetti, ancor oggi risultano ampiamente presenti tra gli oggetti scambiati dai collezionisti su eBay, il sito di aste online. Il bicchiere allevia il senso di colpa dei genitori che comprano sì una merenda al cioccolato ai bambini, ma alla fine resta qualcosa, un oggetto utile, un contenente che permette di giustificare alla propria coscienza l’acquisto del contenuto, di espiare il peccato di gola commesso. Il bicchiere della Nutella è il cavallo di Troia che fa entrare nelle case degli italiani un alimento, il cioccolato, che veniva tenuto a rispettosa distanza. Parafrasando Marshall McLuhan, sociologo canadese e studioso della comunicazione, la Nutella è il messaggio, il barattolo il medium.
Chi è nato in Italia negli anni Sessanta del Novecento ricorda i bicchieri della Nutella che occhieggiano dai pensili della cucina, usati per dar da bere ai bambini assetati, in quanto più sacrificabili rispetto al servizio buono di cristallo, tenuto gelosamente sotto chiave nella credenza della sala da pranzo. Il barattolo più grande, soprannominato Pelikan nel gergo aziendale perché assomiglia vagamente alla boccetta d’inchiostro, è anche questo frutto di un’intuizione geniale: l’apertura tonda con il coperchio a vite risulta familiare come quella di un qualsiasi altro barattolo, ma più in basso assume una forma allungata, in modo da facilitare la presa al momento dell’apertura e da essere sistemato con meno spazi morti sugli scaffali dei negozi. Ulteriore invenzione sono le confezioni monodose, anch’esse concepite negli anni Sessanta: tre vaschettine separate da 30 grammi l’una, vendute assieme, ognuna sufficiente a spalmare un panino.
Anche in questo caso la tradizione non viene dal nulla: le cronache aziendali ricordano che Michele, aveva insistito con il padre, che non voleva lasciarlo partire, per andare in Germania a comprare una macchina per confezionare i formaggini. Dopo le opportune modifiche, si era rivelata adattissima a incartare nella stagnola il Giandujot. Uscivano pani da un chilo, rettangolari, che si potevano affettare come fossero salame o formaggio.La Supercrema, invece, era venduta dentro pentoline o casette giocattolo per i bambini. Par di sentire gli strilli e i «mamma mi compri», «papà lo voglio», con i figli accontentati perché alla fine rimaneva loro in mano qualcosa con cui giocare.
L’altra grande, fondamentale, intuizione che ha fatto della Nutella la crema spalmabile leader nel mondo e della Ferrero un colosso industriale, è stato l’uso della pubblicità. L’azienda ha da subito intuito la potenza della televisione per vendere prodotti di massa e per anni si è ritrovata tra i maggiori investitori pubblicitari della tv italiana. Ha creato testimonial indelebili, come il cartone animato di Jo Condor, in onda tra il 1971 e il 1976 – ancor oggi citato da chi ha tra i 40 e i 50 anni – ispirato da un film americano in cui Spencer Tracy faceva il pilota.
In Germania la Ferrero ha avuto come testimonial l’ex campione di tennis Boris Becker, protagonista involontario di una disputa con i genitori tedeschi. In uno spot mandato in onda nel 1996 si vedeva lo sportivo spalmarsi una fetta di pane con la Nutella, e poi cacciarsi allegramente il coltello in bocca. Apriti cielo: ribellione generale: «Noi abbiamo sempre insegnato ai nostri figli a non mettersi il coltello in bocca, e voi fate vedere il gesto compiuto da un testimone che amano con un prodotto che adorano?» La Ferrero compie una rapida ritirata strategica e negli spot successivi si vede il tennista infilare il dito nel barattolo.
La Nutella è un prodotto con forte resistenza al consumo e all’acquisto, come direbbero gli esperti di marketing. Finisce il barattolo? Non ne compro subito un altro perché che finirebbe presto pure quello. E poi mi vengono i brufoli e magari pure ingrasso. Allora aspetto. Quindi la pubblicità è fondamentale per mantenere alti i livelli di vendite.
Una merenda così di culto non può che diventare oggetto di culto. E infatti ci pensa Nanni Moretti a santificarla. Il regista, nel suo film Bianca, (1984) si abbuffa di notte da un barattolone di Nutella alto quasi un metro.Qualche anno dopo la crema spalmabile anima un vivace dibattito tra uno scrittore, padovano e molto di sinistra, Ferdinando Camon, e un pupazzo, televisivo e un po’ di destra, il Gabibbo, in quegli anni un maître à penser della cultura italiana. Il pupazzo aveva scandalizzato lo scrittore inghiottendo libri attraverso la sua amplissima bocca, durante una trasmissione tv. Camon si era lamentato nell’inserto Tuttolibri del quotidiano La Stampa accusando il Gabibbo di ingollare libri come fossero Nutella. Al che il pupazzo – gosth writer il suo creatore, Antonio Ricci – gli replica dalle medesime colonne il 13 marzo 1993 con una frase destinata a fare epoca: «C’è più cultura in un vasetto di Nutella che nell’80 per cento dei libri.» Il bello è che, qualora si consideri il lavoro creativo e di ricerca che sta alle spalle di un barattolo di crema di nocciole e cacao e si pensi a quante insulsaggini finiscano indegnamente sugli scaffali delle librerie, aveva ragione il Gabibbo. Magari l’80 per cento è esagerato, ma se qualcuno dei 150 libri che ogni giorno escono in Italia non raggiungesse la tipografia, senza dubbio almeno le foreste ne beneficerebbero. Tra i tifosi sfegatati della crema spalmabile vanno senz’altro annoverati il calciatore Francesco Totti e l’olimpionica di fondo Manuela Di Centa. Totti, capitano della Roma, nel 2004 ha dichiarato: «Il mio doping? La Nutella» e due anni dopo, svegliandosi da un intervento chirurgico per la riduzione di una frattura, ha chiesto una sola cosa: un barattolo di Nutella. Invece la Di Centa, due medaglie d’oro a Lillehammer 1994, viene derubata mentre nel 2003 partecipa in Nepal a una spedizione sull’Everest, tornata al campo base scopre che le mancano varie cose, tra cui, dichiara, «il bene più prezioso, i barattoli di Nutella.»
Sempre nel 1993 esce un librino scritto in un esilarante latino maccheronico. Nutella Nutellae, di Riccardo Cassini, dopo varie edizioni uno dei maggiori successi dell’editoria italiana: un milione e mezzo di copie in sei anni. L’attacco fa il verso al De bello gallico, di Giulio Cesare. «Nutella omnia divisa est in partes tres» precisando che una parte sono le vaschette monodose, la seconda i bicchieri di vetro e la terza i barattoli grandi («Nutella in magno barattolo», ma ancora meglio se «magno Nutella in barattolo»).Lo scritto diventa poi un monologo che Cassini recita in tutta Italia strappando vivaci applausi.
Anche la rivista cult della sinistra intellettuale americana, The New Yorker, se ne occupa. «Nutella, uno dei grandi cibi spazzatura del mondo e un alimento tanto fresco di fabbrica quanto una nuova Fiat. Definire la Nutella – pronuncia Noo-tella – come una crema di cioccolato e nocciole in un vasetto è come dire che il David di Michelangelo sia un grande blocco di marmo scolpito. Come tutte le creazioni dell’ingegno, la Nutella possiede uno spirito inanimato che trascende i suoi componenti fisici. Vergognosamente dolce, ma non troppo, più grassa del burro di arachidi, ma con la stessa proprietà curiosamente sexy di incollare insieme le mandibole, con un intenso sapore di cioccolata, ma con una morbida dolcezza che richiama bisogni regressivi, la Nutella è fatta per essere spalmata sul pane, ma più sovente finisce per essere ingollata a cucchiaiate direttamente dal vasetto. […] Sebbene la Nutella venga venduta come una merenda per bambini, tutti sanno che contiene più zuccheri e grasso che un’oncia di Oprah Winfrey su una coppa di gelato.»
Nella stagione teatrale 1994/’95 un celebre cantautore, Giorgio Gaber, lancia una canzone, Destra-sinistra, che dà il via a un dibattito ancora attuale. La Nutella è di sinistra? «Se la cioccolata svizzera è di destra,/ la Nutella è ancora di sinistra.» Nel 1996 al Carrousel du Louvre, a Parigi, nella mostra Génération Nutella artisti, attori, poeti dedicano celebrano i trent’anni della crema spalmabile in Francia.Nel 2000 arriva l’incoronazione: nella mostra a Padova Cento anni di design italiano, «accanto al Cubo (televisore di Mario Bellini), alla Valentine di Olivetti e a un 45 giri dei Beatles c’era anche lei: la Nutella.»
Intanto nel 2001 debutta la prima Nutelleria, a Bologna (ne seguiranno una a Genova e un’alta a Francoforte), dove tutti i piatti offerti sono a base di Nutella: piadine, crêpes, croissant; una formula di fast food dolce che però la Ferrero non ha ritenuto di allargare.
Se si misurasse il successo di un prodotto in base alle imitazioni, be’ la Nutella è un successone: straimitata ovunque nel mondo, sebbene mai niente sia riuscito davvero a farle ombra. La prima imitazione non era nemmeno tale, si trattava più che altro di un concorrente temibilissimo. Protagonista il solito veneto “fasso tuto mi” (faccio tutto io) che ha fatto pure il favore di eliminarsi da solo. Vittorio Sorgato, questo il suo nome, ad Abbazia di Badia Polesine, in provincia di Rovigo, aveva messo in piedi un’azienda che produceva un surrogato di cioccolato bicolore, marrone e beige, che era arrivata ad avere cento operai. Nel 1948 possedeva trenta camioncini che mandava in giro per l’Italia a distribuire il suo prodotto. Ma poi «qualche affare sbagliato» (è lui stesso a dirlo) e va tutto gambe all’aria.
Oggi il maggior concorrente italiano è la Nutkao di Canove di Govone, un paese in provincia di Cuneo non molto distante da Alba. L’azienda è stata fondata nel 1982 da Giuseppe Braida, un ex dipendente Ferrero che si è messo in proprio. Nel 2012 aveva 160 addetti ed esportava il 45 per cento della produzione. Si tratta soprattutto di semilavorati per industria dolciaria, ovvero di crema di nocciole e cacao usata per le farciture di biscotti e dolcetti. Quelle crostatine tanto buone che sembrano farcite con la Nutella, molto probabilmente contengono invece crema Nutkao, venduta a prezzi inferiori rispetto a quella della Ferrero. Nutkao sono anche molte creme commercializzate con i marchi della grande distribuzione, mentre a marchio proprio vende barattolini monodose per fare merenda.
Un altro concorrente italiano abbastanza agguerrito è la Novi (45 per cento di nocciole), mentre un vero e proprio caso è quello della tedesca Nudossi. Questa crema era un prodotto di punta dalla Vadossi, una fabbrica di Dresda, nell’allora Ddr. Dopo la caduta del Muro, nel 1989, la Nudossi sparisce dagli scaffali, come quasi tutto quello che usciva dalle linee di produzione della defunta Germania Est. Ma diventa anche uno degli obiettivi privilegiati della cosiddetta Ostalgie, cioè la nostalgia per i prodotti e il modo di vivere della Ddr (nel 2003 uscì anche un film Good Bye Lenin, in cui si parlava dei cetriolini Spreewälder, pure quelli rimpianti con commozione da chi era stato bambino ai tempi di Erich Honecker, il leader tedesco orientale). Dal 1999 la Nudossi torna trionfalmente negli scaffali dei supermercati, questa volta di tutta la Germania, forte anche del fatto di contenere il 36 per cento di nocciole, contro il 13 per cento della Nutella.
La Ferrero è un’azienda un po’ arcigna, molto attenta che nessuno usi il marchio Nutella, nemmeno se è un innamorato pazzo della crema di cacao e nocciole (e nel mondo i fan sono tantissimi).
Ne sanno qualcosa i ragazzi romani che per primi aprono, a metà 1997, un sito internet dedicato alla Nutella. Dopo qualche mese, in ottobre, è costretto a chiudere e sullo schermo dei computer si legge una lettera dell’ufficio legale della Ferrero: «non si vuole in alcun modo che il nostro marchio Nutella® sia associato a iniziative di terzi.»
I cani da guardia della Nutella, due anni prima, avevano già azzannato un celebre vocabolario della lingua italiana, il Devoto-Oli, che era stato il primo a inserire “nutella” tra le parole entrate nella lingua di tutti i giorni. «Nome commerciale di una diffusissima crema a base di nocciole e cioccolato» era scritto nell’edizione dell’aprile 1995, naturalmente la parola era trattata come un nome comune di cosa e quindi scritta con l’iniziale minuscola. Non sia mai! Immediata arriva una lettera dell’ufficio legale della Ferrero precisando che si tratta invece di un nome commerciale, quindi da scrivere con la maiuscola. Gian Carlo Oli, curatore del vocabolario, precisa in un’intervista che anche aspirina è il nome commerciale dell’acido acetilsalicilico, registrato da una nota ditta farmaceutica tedesca nel 1899, ma ormai la parola è entrata nell’uso comune. A questo punto si scatena la bagarre, con i giornali italiani che versano fiumi d’inchiostro sul diritto alla libera Nutella. Ma la battaglia legale va avanti e se la aggiudica la Ferrero, così nella successiva edizione del vocabolario, uscita due mesi dopo, la voce “nutella”, sempre con la minuscola, viene così modificata: «Nome commerciale di una diffusissima crema a base di nocciole e cioccolato (marchio reg.).»
In tempi più recenti, invece, i cuori di pietra dei legali della Nutella si devono essere ammorbiditi perché la Ferrero ha fatto marcia indietro sul World Nutella Day. Iniziativa, questa, promossa nel 2007 da una fan del prodotto, una blogger americana di nome Sara Rosso, che dedica anche alla Nutella una pagina su Facebook e su Twitter, con tanto di ricette provenienti da tutto il mondo), tipo enchilada di pollo con salsa messicana alla Nutella o il panino con bacon e Nutella. La Ferrero nel maggio 2013 ingiunge alla blogger di chiudere il sito e cancellare il World Nutella Day che si tiene ogni anno il 5 febbraio.Ma rispetto ai primordi del 1997, quando si poteva oscurare un sito nell’indifferenza generale, il web ora è cambiato e la Ferrero viene sommersa dall’indignazione online dei fan arrabbiati che la costringono a ritornare sui suoi passi, addossando la colpa a una «procedura di routine» a difesa dei marchi. La pagina www.nutelladay.com continua a rimanere visibile a l’azienda dirama un comunicato tutto miele: «Un positivo contatto diretto tra Ferrero e Sara Rosso, owner di una fan page non ufficiale di Nutella chiamata World Nutella Day, ha chiuso il caso. Ferrero desidera esprimere a Sara Rosso la sincera gratitudine per la sua passione per Nutella, gratitudine che estende a tutti i fan del World Nutella Day.»
Internet rimane un moltiplicatore della fama della Nutella, per esempio con vendite di prodotto e di oggetti da collezione su eBay. Attraverso il sito di aste si può tracciare un curioso atlante della Nutella in alcuni paesi del mondo. Al momento di chiudere questo libro, il 16 gennaio 2014, il sito eBay più affollato alla voce «Nutella» è quello italiano, con 2001 oggetti. Seguono Spagna (891), Germania (493), Francia (471), eBay.com che riflette le vendite negli Stati Uniti e in tutti i paesi che non hanno un proprio sito (422), Gran Bretagna (238) e all’ultimo posto eBay Australia, dove pur esiste una fabbrica di Nutella, con 58 oggetti, tra i quali una foto di inquietanti quadratini marroncini di «Homemade Nutella Fudge. 200 gr. Toowoomba!»; evidentemente gli occhiuti legali della Ferrero hanno qualche problema nel tenere sotto controllo l’Australia.
Ovviamente finire in tribunale è sempre un rischio e la Ferrero ha pure perso alcuni procedimenti legali. Una sconfitta l’ha subita in Germania nel 2011, quando è stata costretta, in primo grado, a cambiare le etichette in seguito a un’iniziativa legale del Bundesverband der Verbraucherzentralen, cioè l’unione federale delle associazioni dei consumatori. Secondo il verdetto di un tribunale di Francoforte, le etichette tedesche erano scritte in modo fuorviante e non mettevano in rilievo quanti grassi e zucchero fossero contenuti nel prodotto.Ma la sconfitta più clamorosa è stata quella subita negli Stati Uniti d’America, a opera di una mamma californiana, di San Diego, dal cognome illustre, Athena Hohenberg (Sophia Chotek, duchessa di Hohenberg, era la moglie dell’erede al trono austroungarico, Francesco Ferdinando, assassinata assieme a lui a Sarajevo, il 28 giugno 1914, azione che, com’è noto, ha dato il via alla prima guerra mondiale, cinquant’anni prima che la Nutella nascesse: ulteriore anniversario del 2014).
La signora californiana, mamma di una bambina che allora aveva quattro anni, nel 2012 dà il via a una class action contro la Ferrero Usa, dichiarandosi choccata perché l’azienda promuove la Nutella come «un esempio di colazione equilibrata, gustosa e sana.» Al contrario, afferma la donna «la Nutella non è né sana, né nutriente, ed è simile a tanti altri dolci e contiene livelli pericolosi di grassi saturi.» Secondo Athena Hohenberg gli spot pubblicitari della Nutella diffusi negli Usa non mettono in rilievo tutti gli elementi nutrizionali della crema spalmabile, in particolare i grassi. In base a un accordo extragiudiziale, la Ferrero viene condannata a pagare una forte multa (4 dollari Usa per ogni barattolo venduto tra il 2008 e il 2012, in un primo tempo si era parlato di 3 milioni di dollari Usa, ma poi la Ferrero ha precisato che il rimborso riguardava soltanto chi aveva aderito alla class action) e a modificare alcuni spot pubblicitari. Sempre la Ferrero sottolinea che la vicenda riguarda soltanto gli Stati Uniti e la sentenza non ha valore nel resto del mondo. In ogni caso, il tutto potrebbe apparire un po’ come una rivincita dell’Austria sconfitta dall’Italia nella Prima guerra mondiale, con una rampolla di una delle dinastie più illustri della monarchia asburgica che sconfigge in tribunale la più importante azienda italiana.
La crema di nocciole e cacao è talmente buona da farne una malattia? Non al punto da diventarne schiavi, sembrerebbe. Annalisa Pistuddi, psicologa e psicoterapeuta, studiosa della dipendenze, precisa che non risultano in letteratura episodi di dipendenza da Nutella, mentre la crema spalmabile è citata spessissimo nei casi di disordini alimentari. Lo confermano alcuni forum frequentati da utenti affetti da questo tipo di patologie. «Ero disgustata di me stessa. Avevo appena mangiato 8-9 porzioni di Nutella» dice Ashley, nell’agosto 2011. Nel post «Aiuto. Non riesco a smettere di mangiare Nutella», nel luglio 2010 l’utente Stephbabyy1 osserva che deve sempre avere un po’ crema spalmabile nella dispensa di casa.
La Nutella ha conquistato il mondo. È presente quasi ovunque e un po’ dappertutto ci sono fabbriche che producono la mitica crema di nocciole e cioccolato. Ma c’è un paese, sterminato, dove la Ferrero vorrebbe insediarsi e ancora non c’è riuscita: la Cina, il mercato da oltre un miliardo di essere umani, un po’ sogno e un po’ incubo di ogni produttore del mondo. Ma per un prodotto nato per essere spalmato sul pane, la Cina presenta un problema grande come una casa: non esiste il pane.

(Testo tratto dal libro, Il Genio del Gusto, Garzanti, Alessandro Marzo Magno, grazie all’editore per la concessione)



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venerdì 20 novembre 2015

Desiderio sessuale e relazioni

Bisogna fare sesso quando non si ha voglia? 

Le ragioni per rispondere sì o no mantenendo l'armonia di coppia, senza deludere le aspettative del compagno ed evitando di fingere il piacere

di Giovanna Caldara, Antonella De Minico

lunedì 16 novembre 2015

Donna, desiderio, sessualità

Piacere, sono una donna. E vi spiego il desiderio

Meno automatico di quello maschile l'organo femminile è un mix di sicurezza e fiducia in se stesse.
Più misterioso e meno meccanico di quello maschile, il piacere femminile è un’esperienza sempre diversa, legata a emozioni mutevoli, che impediscono talvolta di raggiungerlo. Ma superare blocchi e difficoltà, è possibile. 
La parola agli esperti...
1. RAGGIUNGERE LA STIMA DI SÉ. «Fiducia in se stesse e confidenza con il proprio corpo sono fondamentali per raggiungere l’orgasmo», afferma Annalisa Pistuddi, psicoterapeuta esperta in sessuologia a Milano. E se si hanno timori a mostrarsi nude, o se il partner accarezza parti del corpo che si pensa abbiano difetti? «L’autostima non nasce dall’avere un fisico che risponde ai nostri canoni di bellezza, ma dalla convinzione che ogni corpo, anche ‘imperfetto’, ha la capacità di dare e ricevere piacere», aggiunge Federica Giromella, esperta di sessuologia di Roma.

2. SAPERSI ABBANDONARE «La penetrazione può suscitare sentimenti in bilico tra desiderio e paura di intrusione», precisa Giromella. Generando inquietudine. 
«Alcune, provando l’orgasmo, temono di smarrire i confini corporei e mentali e, inconsciamente, si irrigidiscono», conferma Pistuddi. «Altre non inseguono il piacere perché pensano di desiderare esperienze troppo trasgressive. 
E, se si teme che questi gesti inneschino il giudizio o la gelosia del partner, il blocco è quasi garantito...». 
Come affrontarlo? Ascoltando il corpo.
3. LA SUA IMPREVEDIBILITÀ per avere fiducia nel partner che sia il compagno di una vita o la conquista di una sera, la condizione necessaria per raggiungere l’orgasmo è la fiducia. «Il partner ideale è quello che ci fa sentire sicure, che ci accoglie senza giudizi», afferma Giromella. 
«È in contatto sia con il suo sia con il nostro desiderio e sa lasciare spazio a un’esperienza che è una creazione condivisa. Con lui, niente sembra fuori posto, o ripetitivo». 
Per provare piacere, quindi, bisogna andare oltre i luoghi comuni. 
«L’importante è aprirsi all’ascolto dell’altro, lasciare che la sessualità scaturisca dall’incontro con il partner». 
4. LIBERARE LE FANTASIE Per arrivare all’acme del piacere, bisogna liberare le fantasie che alimentano il desiderio (per esempio, fare l’amore di gruppo, essere guardati mentre lo si fa...). «Uno stratagemma dell’immaginario per lasciarsi andare totalmente. Le fantasie devono fluire senza sensi di colpa, senza etichettarle come ‘cattive’ o ‘sbagliate’».
5. IMPARARE AD ACCETTARE une donne, l’orgasmo arriva anche dopo molti anni. «Talvolta serve tempo per imparare a lasciarsi andare davvero, entrare nell’intimità delle proprie sensazioni e dei desideri», afferma Pistuddi. Per esprimere liberamente sia la parte più istintuale sia le fantasie, è necessario scoprire una dimensione nuova di sé, e lasciare che le emozioni corporee prendano il sopravvento.

Violaine Gelly Isabelle Taubes

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venerdì 13 novembre 2015

Crisi di coppia dopo il bebè: come ritrovarsi

CRISI DI COPPIA DOPO IL BEBè: COME RITROVARSI

Con la consulenza della dottoressa Annalisa Pistuddi, psicologa, esperta in psicoterapia relazionale.

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lunedì 9 novembre 2015

ITALIANI POPOLO DI SANTI, POETI, NAVIGATORI E.....SESSODIPENDENTI


Secondo lo studio, oltre il 6% della popolazione del 

Bel Paese soffre di tale patologia; 

specialmente gli uomini

La ricercatrice: "Il sesso e le sue fantasie permeano tutta la vita e la giornata
e non si riesce a controllarle. Non si considerano le conseguenze, 
proprio come avviene con l'abuso di sostanze"

Italiani, popolo di santi, poeti, navigatori
e... sesso-dipendenti
Italiani, un popolo di santi, poeti, navigatori e... sesso-dipendenti. Direttamente dagli Stati Uniti, la "sexual addiction", ovvero dipendanza da sesso, è un disturbo che interessa il 6% della popolazione italiana, soprattutto di sesso maschile tra i 26 e 35 anni. Ad analizzare il fenomeno la dottoressa Annalisa Pistuddi, psicoterapeuta dell'asl di Milano 2, che al congresso di Federser ha dichiarato: "Purtroppo non ci sono molti dati nel nostro Paese su questo fenomeno ma è bene chiarire che la sexual addiction è diversa dal desiderio sessuale iperattivo. Quando si ha la dipendenza, ci si mette in situazioni di rischio per sé e per gli altri. Il sesso e le sue fantasie permeano tutta la vita e la giornata, e non si riesce a controllarle. Non si considerano le conseguenze, proprio come avviene con l'abuso di sostanze"
Le vittime - Nel mirino di tale patologia ci sono specialmente gli uomini: "soprattutto giovani. Il 46% ha tra i 26 e 35 anni, mentre il 34% è tra i 35 e 50 anni. Si tratta di persone spesso precarie o senza lavoro, single o separate. In molti casi hanno subito traumi, lutti, abbandoni, e soffrono anche di disturbi dell'umore. Pochissimi chiedono aiuto". Come negli STati Uniti, anche in Italia ci sono cliniche di disintossicazione, ma la terapia è lunga e non sempre facile. Inoltre, la dottoressa ha espresso le sue preoccupazioni sull'uso sbagliato del web: "Certo, in futuro c'è da aspettarsi un aumento dei casi per via dell'uso di internet, che intensifica contatti pornografici". 

lunedì 2 novembre 2015

INTERNET E FLIRT: INCONTRI O CASUALITA'

http://d.repubblica.it/argomenti/2013/02/08/news/amore_incontri_web-1486354/

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sentimenti digitali

Flirt 2.0

Il corteggiamento sembra un rito destinato all’estinzione. Ma gli algoritmi per incontrare la persona giusta non insegnano a essere sexy
di Elisabetta Muritti





Flirt 2.0
Oggi ci fa comodo lamentarci della poca preveggenza di Darwin, circa corteggiamento, accoppiamento ed evoluzione della specie. Se avesse saputo prima che cosa sarebbe diventato l’amore ai tempi di Internet, figurarsi se il naturalista si sarebbe accalorato a dar per immutabili il maschio-cacciatore, la femmina-preda, il loro corredo di moine e fraintendimenti... Ce lo ricorda Dan Slater il trentacinquenne autore di Love in the Time of Algorithms, sottotitolo: “Che cosa fa la tecnologia all’incontro e all’accoppiamento”, che nel saggio appena pubblicato negli Stati Uniti da Penguin descrive opportunità e disastri del business della conoscenza virtuale.

A essere più precisi, è andata fuori corso l’intera l’antropologia dei rapporti sentimentali. Basta consultare le descrizioni del corteggiamento nei manuali, magari scritti negli anni 90 e non nei secoli andati, per accorgersi che la passionalità formato techno è tutta da studiare, e che Slater ha solo cominciato a farlo. Esempi? Come la mettiamo, in tempi di dating online, con la donna che, preda o non preda, è la prima a promuovere il contatto relazionale, con uno sguardo che è fulmineo e sfuggente al tempo stesso? Che dire dei segnali indiretti non verbali, del linguaggio gestuale, il guardarsi negli occhi un filo più del necessario, i movimenti più lenti, i sorrisi a bocca socchiusa, lui che giocherella con l’accendino o le chiavi, lei che si sistema i vestiti e si pettina con le dita...
Tutto questo bagaglio biologico e culturale, che ha fatto soffrire le pene dell’inferno e gioire le delizie del paradiso a generazioni di umani, è più vintage di un telefono a gettoni. Più “vecchio” di un mazzo di rose, di una cena a lume di candela.

Colpa o merito delle tecnologie: anche Alex Williams, brillante penna del The New York Times, decreta la fine del corteggiamento. E dice che è arrivata l’era del “non-date”, del “che fai il prossimo weekend?” sganciato da implicazioni galanti. E cita qualche vittima sul campo. Belle manager che trovano un’anima gemella sui siti di dating, mesi di chat e sms, un generico “vediamoci” la tal sera del tal giorno, ecco che ci ricamano sopra, quantomeno immaginano un aperitivo a due, poi nulla, poi l’indicazione del locale scelto e, alla fine, la svagata annotazione che lui è già lì con un gruppo di amici. Universitari che non solo non sanno come trovarsi il fidanzato/a, e sarebbe il meno, ma che, una volta trovatolo/a, hanno bisogno di istruzioni per l’uso, l’intimità è un noioso imbarazzo, non era più eccitante quando ci si palleggiava chat disinvolte e autoscatti porno? E poi, giovani adulti ambosessi che scoprono di non sapere nulla di fascino e sex appeal, al massimo hanno sentito parlare del cool, rispetto alla seduzione sono analfabeti.
Il panorama Usa è triste ed emana il profumo a tratti stantio della recriminazione. Si arriva, con cautela, a rimpiangere il Don Giovanni seriale, più generoso di chi si fa prendere dall’ansia degli speed-dating (potremmo tradurre con sindrome dell’ogni-lasciata-è-persa): avere una donna o un uomo a portata di ogni clic, e ogni clic col profilo più compatibile, è una droga che dà dipendenza, una picconata alla monogamia, pur transitoria, che prelude a un amore consapevole.



Flirt 2.0
«Internet uccide il corteggiamento? Preferirei parlare di alcune fasce a rischio online», rettifica Annalisa Pistuddi, psicosessuologa e psicoterapeuta esperta in dipendenze comportamentali indotte dalla tecnologia. «Gli adolescenti, ovvio, perché confondono l’idealizzazione col desiderio. E quest’ultimo, si sa, presuppone un incontro vero. I teen attribuiscono alla controparte solo le caratteristiche che vogliono e maneggiano, e si fermano lì. E così corrono il pericolo di diventare adulti carenti in intimità e confidenza, e non solo in campo amoroso: incapaci di mediazioni sociali, non sapranno discutere e avranno problemi nella ricerca del lavoro, a meno di non aspettarci una generazione tutta di informatici e creatori di programmi». E snocciola i rischi dell’invisibilità in rete, della solitudine decisionale (ai ragazzi mancherebbe la rappresentazione sociale, pure di un amore), delle poche esperienze reali, della mancanza di spontaneità, del senso di onnipotenza e manipolazione... «Ancora più a rischio maschi e femmine di mezz’età: rinunciando alle fatiche della ricerca sul campo, diventano vittime consenzienti di persone che hanno problemi di relazione. Investono troppo, poi patiscono delusioni cocenti. Per non parlare di certi aspetti inquisitori della rete, per esempio, se lo vuoi, riesci a conoscere preliminarmente lo stipendio della persona che vuoi agganciare».

Manca, insomma, una ben leggibile sintassi del corteggiamento; e così spuntano come funghi i siti di autoaiuto (dating commentary, dicono negli Usa) per fanciulle frustrate e confuse, della serie tutte (tutti?) hanno ancora diritto a sentirsi sexy, indipendentemente dall’ambiguità di flirt elettronici e appuntamenti virtuali. «La paura dell’ignoto è più che altro paura di sentirsi dire di sì, non di no, di esporsi, di proporre un sé senza modalità mascherate», sorride Annalisa Pistuddi. «A volte i maschi con partner “conosciute” online patiscono problemi di erezione, défaillance situazionali; del resto, è tipicamente maschile il “gettare l’amo a tutte quante”, lo sparare nel mucchio, com’è tipicamente femminile l’abboccare, le donne captano meglio il segnale simbolico, chessò?, i fiori, i cioccolatini, e lo cercano anche su Facebook... Tanto, che problema c’è? Posso chiudere la comunicazione quando voglio». E posso pure crearmi un amore virtuale, un gioco erotico parallelo, perché l’amante in carne e ossa oggi costa davvero troppo.

La psicologa racconta la storia vera di E., professionista in ascesa, tosta, non una gattamorta. Conosce un bellone a una festa, lui è stregato dal “potere” di lei, lei dall’autodecantata sapienza amatoria di lui. «Messaggi a fiumi, una storia virtuale, misteriosa, lui si faceva desiderare e modulava il gioco anche coi silenzi, lei trovava il tutto eccitante e ci stava... ». Si incontrano, lui pare al di sotto delle aspettattive, decollano sms più aggressivi, fanno l’amore, lei poi si stufa e non risponde più agli sms. «E. racconta di essersi divertita, lui l’ha fatta sognare, sperare, giocare... Ma quand’è diventato sicuro e ripetitivo lo ha scaricato». La storia di E. chiude il cerchio. Dice quello che dicono alcune blogger americane (sul magazine online Slate, su xoJane, de-cidered.blogspot, Jezebel): il corteggiamento non è morto per colpa della tecnologia. È solo cambiato. Meglio: sta facendo la siesta. Per tornare più forte di prima. Non per niente Ellen Fein e Sherrie Schneider, due marpione che dagli anni 90 firmano vari bestseller intitolati Le regole, di fatto manuali per allumeuse di buon cuore e buona famiglia, ora ci riprovano con Not Your Mother’s Rules: The New Secrets for Dating (Grand Central Publishing). E le regole sono le stesse, liftate giusto per i tempi: sii misteriosa, non chattare, non perder tempo coi tipi complicati o poco interessati, non mandare troppi o troppo tempestivi sms, renditi invisibile su Facebook, non chiedere l’amicizia per prima a uno che ti piace, non chiedere l’amicizia ai suoi parenti, sbircia il suo profilo online ma non confessare neanche sotto tortura di averlo fatto...
«Le vecchie strategie non vanno in pensione», ammette Annalisa Pistuddi. «Peccato, quelle non ci mancavano. Semmai sentiamo la nostalgia del desiderio, delle pause di riflessione, della gratificazione del sapersi corteggiati, della reciprocità, del buttarsi con creatività e fatica». Già, siamo diventati “navigatori” smaliziati ma dilettanti nella passione. Stressati dalla compilazione del nostro profilo, ci promettiamo tutti attenti alla politica e al mondo, ma socialmente controllati dai soliti rituali. Perché Facebook, alla fine, è un mondo tribale e cavalleresco, coi pegni, il decoro, le richieste che sono come biglietti da visita, il controllo dei sodali, le dichiarazioni di intenti, la reputazione. E la foto dell’anello di fidanzamento inviata con WhatsApp. Il corteggiamento è tornato a essere una faccenda di cortile.

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