- Annalisa Pistuddi,
psicoterapeuta, Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze, ASST Melegnano
Martesana
- Jacopo Calderaro, studente L.M.
in Psicologia, Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento,
Università degli Studi di Pavia
Il cibo è stato associato ad aspetti emotivi fin dalla
nascita e l’alimentazione si lega ad altri elementi della quotidianità così
tanto da potersi trasformare, in alcuni casi, in oggetto che crea una
dipendenza.
Non è indicato come una sostanza che può danneggiare la
salute ma può diventare pericoloso se prende le sembianze di qualcosa su cui
centrare le proprie difficoltà e utilizzato come riferimento nelle relazioni.
L’ambiente famigliare, in contesti problematici
rispetto alle relazioni, pare aver assunto un ruolo fondamentale nei disturbi
dell’alimentazione su base psichica.
Dalle ricerche e dall’osservazione sui casi clinici trattati
pare che coloro che sono afflitti da dipendenza alimentare siano i figli (in
particolare le figlie) delle famiglie benestanti e questo dato pare sia rimasto
negli anni piuttosto uniforme in tutto il mondo. Sembra altresì che la
diffusione di questa dipendenza sia attribuita a fattori psicologici.
Sembra che siano le femmine a fare da protagoniste
nella fase in cui si instaura la malattia, i maschi che sviluppano un rapporto
di dipendenza con il cibo sono in misura minore e spesso i casi trattati riguardano
il troppo cibo, per le ragazze invece la lotta è sulle piccole quantità.
L’aspetto socio-culturale legato alla moda, che
propone un fisico longilineo, può essere stato foriero di un certo
comportamento per le femmine ma se tutto arriva fino al rifiuto del cibo deve
intervenire qualche altro fattore più incisivo a determinare una simile presa
di posizione.
Uno stato mentale che diventa malattia del fisico se
si giunge a un preciso stadio di magrezza costruita e può arrivare a uno stadio
di autolesionismo pericoloso. Tanto pericoloso da mettere in gioco la vita di
alcune ragazze che hanno portato avanti la posizione di rifiuto del cibo che è
diventato un comportamento che ha originato la dipendenza.
Sembra che il periodo dell’adolescenza segni l’esordio
dei disturbi alimentari in quanto le pressioni ambientali in relazione con le
spinte degli istinti possono generare situazioni che creano disordini emotivi e
predisposizione alle dipendenze di vario genere.
Se trattiamo di anoressia sappiamo che ciò significa
mancanza di appetito ma non è di questo che si tratta nei casi di dipendenza da
cibo perché innanzitutto le persone che ne sono affette non mancano proprio di
appetito e poi l’interesse per il cibo rimane al centro della patologia.
Coloro che presentano questi problemi palesano un
pensiero incessantemente orientato al proprio corpo, al peso e all’immagine,
così da trasformare i momenti dedicati all’alimentazione in un vero supplizio
costellato da preoccupazione e ansia.
Il desiderio di cambiamento, che non è ben definito ma
che sottende un’ideale di magrezza, si concretizza attraverso la rinuncia a
mangiare ma non è altro che la ricerca di qualcosa di più interiore che spesso
passa attraverso una protesta. Quale può essere migliore contestazione di
quella del rifiuto del cibo?
Numerose osservazioni di casi clinici evidenziano che
sono le ragazze più belle a manifestare un rapporto difficile con il cibo,
spesso i primi segnali sono colti dagli amici che possono diventare una risorsa
se riescono a stare vicino a queste persone che nascondono una profonda
sofferenza che non riguarda l’aspetto.
Chi rifiuta il cibo rifiuta anche i rapporti umani,
cerca in tutti i modi di allontanare gli altri manifestando aggressività oppure
scarso interesse ed evitamento delle relazioni e delle situazioni conviviali.
Il rifiuto relazionale però in questi casi è mascherato dal problema con il
cibo, ciò che gli altri pensano di solito è che la persona che ha dichiarato di
sottoporsi a una dieta non frequenti molto le compagnie dei pari per non trovarsi
davanti a succulenti pietanze.
I maschi sembrano essere più soggetti alle abbuffate e
tendono più frequentemente all’obesità ma anche questo è un problema legato ad
aspetti psichici e non alimentari, né riguarda problemi organici.
Anche questa modalità di ipernutrimento ha radici
profonde, legate alla percezione di sé in relazione al mondo.
I rapporti con i genitori, in particolare i vissuti del
bambino rispetto a queste relazioni, è ormai accertato de numerosi studi che
fanno la loro parte nello sviluppo psichico di ogni individuo ma colpevolizzare
la famiglia non serve.
Sarebbe utile coinvolgere ciascuno dei conviventi nei
progetti di cura, far comprendere come definire il proprio ruolo nel sistema
possa avere un valore al fine di rilevare dove e come qualcosa di relazionale
non ha funzionato.
La letteratura sui problemi alimentari lancia un
allarme riguardo all’età, la fascia più colpita dai disturbi alimentari è
l’adolescenza, dai 14 ai 22 anni. Recenti osservazioni cliniche hanno segnalato
che l’età di esordio non solo si è abbassata fino agli 8 anni ma si sono
rilevati casi preoccupanti in persone di terza età.
Relazioni e comunicazione sono al centro
dell’attenzione, ci sono studiosi che definiscono la dipendenza da cibo un
disturbo della comunicazione. Forse non è l’unica strada da esplorare per
definire e comprendere ma non c’è dubbio che l’avvento di Internet abbia
polarizzato l’attenzione e gli scambi di notizie fra le persone, molto di più
della televisione in passato.
La comunicazione è il canale attraverso il quale
passano le emozioni che si possono comunicare verbalmente oppure con i
comportamenti.
Sembra che il rapporto con il cibo si presti come
messaggio non verbale, con l’obiettivo voler provocare negli altri l’attenzione
rispetto a una sofferenza che non si riesce a comunicare altrimenti, spesso si
tratta di un disagio psichico di non lieve entità.
La sofferenza si può riferire a traumi avvenuti in età
precoce, che spesso non hanno avuto parola o ascolto. Forse il peggior trauma subito
è stato sentire che il proprio dolore non poteva essere considerato, come se
fosse trasparente. Così potrebbe essere nato il desiderio di scomparire o di
essere più ingombrante.
Il dolore psichico si trasforma in problemi
sull’immagine corporea, se si centra tutto lì si devia l’attenzione dai problemi
di inadeguatezza interna che diventa però centrale rispetto alla scontentezza per
il proprio aspetto, che prevale nonostante il tentativo di controllare i
rapporti con gli altri attraverso la propria fisicità.
Si complica così la situazione rispetto alla
valutazione della propria immagine e si crea confusione nell’adolescente fra
ciò che vede e ciò che pensa vedano e considerino gli altri. Diventa un loop infinito quel desiderio di piacere
a tutti e a non tollerare nessuna frustrazione relazionale, l’evidenza del
rifiuto da parte di qualcuno o della considerazione marginale diventa un dramma
per una persona che attraversa un periodo di fragilità.
Un modo per non fermarsi a pensare alle delusioni è
centrare tutto sulla concretezza fisica e del cibo, per non sentire le proprie
emozioni perché potrebbero essere troppo coinvolgenti e spaventose, così col
tempo i disagi si mostrano attraverso il proprio aspetto che diventa a sua
volta spaventoso per gli altri.
Questo meccanismo che non permette di confrontarsi con
il proprio dolore psichico è lo stesso che si trova alla base delle dipendenze,
in particolare quelle comportamentali.
Ciò che emerge dalla storia del paziente dipendente da
cibo che arriva da un professionista per chiedere aiuto è che la sofferenza si
sia spostata, invece di provare emozioni dolorose l’attenzione viene deviata su
un oggetto concreto. Per quanto riguarda i problemi con il cibo si pensa che la
scelta inconscia abbia radici nei vissuti del bambino circa la modalità di
nutrimento avvenuta nei primi mesi di vita.
Le ricerche sui disturbi alimentari hanno iniziato a supporre
che la figura della madre sia stata centrale in quanto primo oggetto
fondamentale, che dà la vita e il nutrimento, e capace di escludere tutto ciò
che c’è intorno dalla relazione con il bambino.
Il padre invece pare abbia assunto il ruolo di una
figura marginale all’interno della famiglia e pian piano è stato escluso dalla
diade madre-bambino. Alcuni padri vengono addirittura disprezzati dalle mogli e
relegati a un ruolo subordinato dopo la nascita del primogenito. L’uomo che non
si ripropone come figura che fa da ponte tra la famiglia e l’esterno, proteggendo
così la relazione madre-bambino dagli eccessi, finisce per soccombere ed essere
escluso per un lungo periodo, sentirsi poco utile, rischiando di diventare poco
partecipe e incisivo anche nel periodo dell’adolescenza dei figli.
Per molte madri di pazienti il ruolo centrale che hanno
sentito e che le ha preoccupate molto è stato essenzialmente quello di offrire
nutrimento e in questo modo hanno alleviato le loro principali ansie
nell’accudimento del bambino.
In alcune famiglie in cui è emerso un problema con il
cibo si è rilevato che i figli hanno il ruolo di essere l’unico collante per la
sopravvivenza del matrimonio e spesso questa situazione porta a una confusione
di ruoli generazionali.
I problemi causati dal disturbo del comportamento
alimentare sono anch’essi una delle modalità disfunzionali che tiene insieme le
relazioni in alcune famiglie problematiche che altrimenti avrebbero smesso di
essere coese o si sarebbero disgregate.
Questo mette luce anche sull’iperinvestimento nei
doveri che i figli problematici esprimono, spesso sono studenti modello e
perfezionisti anche se nascondono una bassa autostima e scarsa fiducia negli
altri.
Sulla responsabilità che i figli problematici possono
sentire ma non esprimere, nel tenere coesa la famiglia con l’espressione della
sintomatologia, hanno investito troppo della loro vita emotiva a discapito
della considerazione delle proprie sensazioni e della propria evoluzione.
Questo legame diventa, per questi figli, una dipendenza
dalle relazioni e dalla propria percezione che può diventare anche con
caratteristiche deliranti, se sostiene di poter influire con le proprie azioni
sulle relazioni che intercorrono fra i genitori.
Il confine generazionale, in queste famiglie, si è molto
affievolito o non esiste più, la sua mancanza genera un disordine mentale che
impedisce di pensare i termini astratti e fa credere che ci si possa aggrappare
solo alla concretezza delle cose.
Una regressione, per l’adolescente problematico, per
non sentire tutta la responsabilità di non essere accettati dagli altri e talvolta
anche un elemento di dissapori e discordie fra i genitori in quanto portatore
di un disagio.
I genitori di un paziente che presenta una dipendenza
da cibo spesso paiono una coppia che abbia simulato un legame ai tempi in cui
erano senza figli e sembra che entrambi abbiano esacerbato i loro dissapori solo
dopo l’avvento della nascita del primo figlio.
Così la madre può aver avuto l’occasione di crearsi
una nuova opportunità relazionale investendo in un’alleanza con il figlio ed
escludendo il padre per considerarlo solo come portatore di cose concrete come
i soldi per mangiare.
Chi si
occupa della dipendenza da cibo e come
I casi delle persone che sviluppano una dipendenza
alimentare sono complessi, in particolare se raggiungono un elevato livello di
gravità.
Pertanto occorre la presenza di un pool di specialisti dedicati. Le figure centrali
nella presa in carico delle persone sono: gli psicoterapeuti, gli psichiatri, i
neuropsichiatri infantili, i professionisti esperti in dipendenze, i dietologi,
gli endocrinologi e altri specialisti in medicina interna come i ginecologi, i
gastroenterologi, gli ortopedici per esempio.
Tutti coloro che, come specialisti della medicina e
della psicologia, possono intervenire per il miglioramento della situazione di
vita del paziente. Anche i volontari spesso sono presenti nel pool dedicato alla cura, ognuno fa la
propria parte ben definita con l’obiettivo di rimettere in piedi queste
difficili vite senza venirne divorati.
E’ possibile effettuare ricoveri ospedalieri per
alcuni periodi in cui avviene un trattamento medico necessario a prevenire
disordini più gravi, si inizia un percorso psicologico e i pazienti vengono anche
coinvolti in attività fisiche e in sessioni in cui avviene una rieducazione
all’alimentazione.
Alcune comunità terapeutiche hanno avviato programmi
dedicati ai disturbi alimentari e lavorano in contatto con ospedali e associazioni.
La permanenza nelle comunità serve per avviare un lavoro più centrato sugli
aspetti psicologici ed educativi, per accompagnare i pazienti verso la
possibilità di diventare autonomi dal punto divista emotivo.
Spesso questi pazienti soffrono per il giudizio
altrui, non tollerano di non essere considerati al centro dell’attenzione e
sperano di poter modificare l’opinione che gli altri potrebbero avere di loro.
Il miraggio che inseguono è di non dover continuare a contare sugli altri ma
sperano che gli altri dipendano da loro. Situazione di difficile realizzazione.
Il problema del giudizio esterno nei propri confronti
e la corsa a modificarlo senza alcuna presa di coscienza che non è altro che
questo meccanismo che crea la dipendenza relazionale è un altro argomento che
sarà affrontare nel corso di un trattamento.
Nelle ASL sono presenti ambulatori con professionisti
formati sull’argomento che si trovano nei dipartimenti di prevenzione, dipartimenti
dipendenze e dipartimenti per le attività socio sanitarie integrate che
contengono i consultori famigliari.
Altresì negli ospedali sono presenti ambulatori dove
svolgono attività psichiatri, psicologi e neuropsichiatri che possono valutare
e predisporre o indicare una modalità per un progetto di cura per casi come
questi.
La via da seguire è innanzitutto comprendere se di
disturbo alimentare si tratta e di che tipo oppure se la sintomatologia si
riferisce a un’organizzazione di personalità dove il cibo riguarda una parte
della patologia e non arriva a un’evoluzione centrata solo sull’alimentazione.
Per una prima ipotesi il medico e il pediatra di base
possono essere i punti di riferimento più vicini a cui rivolgersi per avere
delle indicazioni.
L’offerta di strutture e di professionisti è variegata
e in Italia gli sviluppi su questo argomento hanno trovato interesse ed
evoluzione negli ultimi decenni così come gli specialisti di varie discipline
della sanità, sia pubblica che privata, hanno avuto modo di accostarsi a queste
problematiche.
Manifestazioni,
problemi che si generano e modi di affrontarli
La dipendenza da cibo può avere diverse
manifestazioni, non saranno classificate e descritte in modo particolareggiato
in questo articolo. Ciò che sembra più urgente e importante è comprendere che
celano una sofferenza enorme e in quale modo sia sorta, come si sia sviluppata
e quali possono essere le vie migliori affinché si conduca la persona verso un
sollievo.
Chi ne è affetto diventa una vittima del cibo e delle
modalità con cui si accosta ad esso, tutti gli studi evidenziano che questo
tipo di disagio colpisce molte persone che provengono da situazioni sociali
apparentemente tranquille e insospettabili.
E’ qui che si annida una sofferenza che non trova le
parole, spesso si tratta di persone su cui sono state poste aspettative che loro
stesse sentono come enormi, si sentono pertanto inadeguate e costrette a
nascondere la propria imperfezione. Un grande problema che non riescono a sopportare
è non poter appagare chi le ha messe al centro dei propri desideri senza
considerare i loro.
Non possono protestare con le parole perché verrebbero
emarginate dal proprio ambiente, la lotta per sopravvivere diventa duplice
perché la propria immagine è fragile, sia verso l’esterno che in famiglia dove
sono nate le aspettative nei loro confronti.
Non si può né dire né tantomeno pensare di poter
fallire, quindi la corsa è inevitabilmente verso la perfezione.
Nell’anoressia, per esempio, la perfezione viene
spesso idealizzata nel riuscire a fare a meno di tutto, si concentra sul cibo
ma il desiderio recondito sarebbe di poter fare a meno di essere vittime del
giudizio degli altri.
Qui il problema sembra centrato sull’autostima,
sull’immagine di sé che però viene costantemente messa a repentaglio perché la
persona si sente spesso svalorizzata, talmente enormi sono state percepite le
aspettative degli altri nei suoi confronti. Ma la stima di sé non è l’unica
difficoltà.
Qualche paziente che rifiuta il cibo immagina così di
sparire dalla possibilità che le vengano fatte delle richieste a cui non pensa
di saper rispondere adeguatamente, come se non potesse comunicare a parole il
proprio disaccordo.
Non poter usare le parole è un altro problema enorme
che interviene nei casi in cui non è possibile contraddire gli altri, come se
fosse scontato che il linguaggio serva solo per scontrarsi e non per
incontrarsi.
Le difficoltà di comunicazione e di relazione
sottendono il disagio di non poter trovare negli altri persone disponibili
all’ascolto, i genitori spesso sono vissuti come richiedenti e centrati sul
gratificare le proprie aspettative, non disponibili ad ascoltare i desideri dei
figli e spesso nemmeno quelli del proprio partner.
Con il radicarsi di questi vissuti i ragazzi non
possono far altro che comunicare il proprio disagio attraverso un
comportamento. L’alimentazione è il comportamento che, con il risultato
scolastico, ha più evidenza e più possibilità di destare preoccupazione negli
adulti delle famiglie problematiche.
Alcuni accadimenti rimangono situazioni considerate a
livello piuttosto superficiale finché non emerge un problema che “pesa” in
famiglia. Quel problema che può sfociare in malattia, in manifestazioni di
sofferenza fisica ed essere evidente anche agli occhi di tutti che qualcosa
nell’adolescente sta succedendo in modo prorompente.
Ecco allora che ci si accorge che qualcosa non è
andato per il verso giusto e che la situazione si protrae da qualche tempo, tutto
viene talvolta confuso con qualche problema non ben definito ma che si può
riferire alla crescita, per essere ancora una volta tutti evitanti rispetto al
dolore psichico.
Purtroppo però quando i genitori si accorgono che la
situazione è precipitata si spaventano e molti ricorrono alle richieste di
interventi magici o salvifici della situazione, senza comprendere che sono
anche loro stessi a dover mettersi in gioco per migliorare la situazione problematica
che coinvolge tutti.
A questo punto le madri che si sono sempre considerate
molto presenti in famiglia si sorprendono per la loro inefficacia e si
annullano nei sensi di colpa; i padri relegati in un ruolo marginale non
riescono a trovare un modo diverso di proporsi.
Evidentemente non sono attrezzati per affrontare il
problema da soli, in primo luogo perché non sanno riconoscerlo né misurarne
l’entità. Per questo vanno innanzitutto aiutati a comprendere che cosa sta
succedendo e come si può trattare il problema.
I casi di anoressia e di bulimia sottendono
problematiche intrapsichiche e relazionali che vanno riconosciute, non solo
dagli specialisti ma anche dagli attori della patologia, a cominciare dalla
famiglia che dovrà, se disponibile, essere parte del processo terapeutico del
paziente.
Va tenuto conto della complessità dei casi, non solo
dal punto di vista del sistema famigliare ma anche considerate le storie
personali di ognuno dei membri. E’ importante che emergano le loro fantasie e
aspettative, che hanno avuto in passato, che hanno nell’attualità e rispetto al
futuro di tutti e nei confronti della malattia che ha colpito uno di loro.
Considerare una visione globale della malattia è un
concetto moderno di trattamento, agli esordi degli studi sui disordini
alimentari non veniva valorizzato il ruolo dell’ambiente famigliare.
Le famiglie venivano coinvolte in modo marginale,
dando loro semplici compiti simili a ricette anche piuttosto imprecise, si
diceva loro di essere accomodanti e gentili con il paziente e di cercare di non
far salire la tensione domestica. Ciò sottendeva l’ipotesi che il paziente
avesse una bassa sopportazione dello stress. Ma evidentemente non era
sufficiente dal punto di vista di una lettura completa del disagio.
Si è poi man mano posto l’accento sul ruolo degli
altri membri della famiglia, sui comportamenti indotti e reciprocamente
influenzanti, sui confini generazionali e la loro natura. I famigliari sono
stati coinvolti, ove possibile, nel processo terapeutico, senza intenti
colpevolizzanti ma per far vivere loro il problema che fino ad allora sembrava
celato e renderli parte attiva di una possibile evoluzione della situazione.
Oggi è evidente che per intervenire in un problema che
riguarda una dipendenza sarebbe importante che i componenti dell’ambiente
famigliare in primo luogo e anche altre persone affettivamente legate al
paziente potessero, in qualche modo, partecipare al percorso.
I problemi da affrontare, insieme a quello principale
che emerge riguardo al cibo, sono quelli di comunicazione, di relazione, di
linguaggio ma non bisogna assolutamente tralasciare di osservare il processo
del pensiero, come si genera e come prende forma.
Spesso si è evidenziato come le concezioni parentali
dei bisogni dei figli potessero portare il bambino a interpretare con
confusione i segnali degli adulti. Pertanto anche i segnali generati dal
proprio corpo, come per esempio in questi casi la sensazione di fame e di
sazietà, potrebbero essere stati terreno di malintesi e incomprensioni fin dai
primi mesi di vita del bambino.
Molti genitori si sono attenuti, nell’educazione dei
propri figli, nel trasmettere credenze e modalità indiscutibili, apprese dai
propri genitori e mai messe in discussione o da qualche manuale pedagogico
spesso interpretato con rigidità, invece di sperimentare se stessi nell’ascolto
del proprio bambino.
Questo modo, se posto con inflessibilità per timore di
sperimentarsi in una dualità interattiva nuova per la madre e in una complicità
condivisa nei valori per il padre, ha spesso dato luogo a fissità che hanno
costruito incomprensioni reciproche e distorsioni della formazione della
personalità del bambino e nel suo sviluppo intaccando anche lo stadio
dell’adolescenza.
Per ricostruire la fiducia reciproca nei membri della
famiglia e per poter aiutare il paziente a ristabilire una modalità diretta e
sentita come desiderio che può nascere all’interno di sé, e così proposto al
mondo, occorrono i contributi degli specialisti che si possono dedicare al
problema collaborando fra loro con l’obiettivo un progetto di guarigione condiviso
e costruito per il paziente, fatto di tappe che si concatenano e si completano.
Il problema che si è riscontrato nei progetti di cura
riguarda non solamente la ricerca di ripristinare situazioni in cui il paziente
si ritrovi a poter riconoscere e ridiscutere i propri desideri e bisogni
all’interno della famiglia e del suo spazio sociale.
Una parte importante è, in particolare per la
psicoterapia, considerare la sofferenza e i profondi disagi emotivi del
paziente che fino ad un certo punto sono stati scotomizzati dal comportamento
sintomatico che ha deviato la sua attenzione e quella degli altri sul cibo.
Questi sono casi per cui lavorare in modo profondo e
duraturo dal punto di vista del trattamento psicoterapeutico, in particolare se
sono casi in cui la patologia alimentare persiste da tempo e ha radici ben
strutturate nel mondo interno della persona sofferente.
Spesso si consiglia (oltre al coinvolgimento
famigliare) un lavoro centrale dal punto di vista terapeutico basato su una
psicoterapia individuale con ritmi intensi che sarà possibile durante, ma sarà
importante proseguire con diligenza dopo, un periodo di ricovero che avrà
ristabilito le condizioni fisiche del paziente.
Non stiamo parlando di casi che hanno lievi e recenti
manifestazioni disfunzionali con il cibo, le quali vanno allo stesso modo
considerate e comprese ma come situazioni per cui si presume un livello
evolutivo e di guarigione di gran lunga meno problematico e tortuoso di quelle
gravi e persistenti nel tempo.
In qualsiasi caso una diagnosi di personalità,
effettuata da uno specialista, è uno step
fondamentale per la comprensione del paziente e dei suoi bisogni.
Alcuni problemi che accomunano questi casi riguardano
la percezione distorta delle emozioni, il problema dell’immagine in particolare
quella del corpo, l’autostima, la fiducia in sé e nell’altro, la percezione
dell’incapacità di manifestare se stessi.
In alcuni casi la sofferenza e la preoccupazione dei
famigliari emerge in modo prorompente e i terapeuti sentono di suggerire anche
ad alcuni di essi un percorso di psicoterapia individuale. Alcuni membri della
famiglia, che hanno avuto all’inizio o hanno pensato di aver solo il ruolo di
accompagnatori, scorgono il bisogno personale di comprendere se stessi
all’interno di un sistema problematico.
La motivazione spesso è accesa proprio nei genitori di
questi pazienti e non è difficile incontrare il loro accordo a intraprendere,
ognuno per sé, il proprio percorso individuale. Ciò potrebbe avvenire dopo aver
fatto esperienza di un percorso famigliare o di coppia.
Gli obiettivi base di un percorso di cura potrebbero
essere riassumibili nel ripristinare il peso adeguato e il modello di
nutrizione che consenta di vivere senza effetti collaterali, nel raggiungere un
adattamento soddisfacente nella famiglia, a scuola o al lavoro, nelle relazioni
con i coetanei e nel sociale.
Un livello superiore di evoluzione riguarda
l’affrontare i disturbi del comportamento, dell’affettività e del pensiero. Aver
compreso che il trattamento psicoterapico può essere una risorsa da considerare
in momenti di difficoltà della vita e soprattutto averne beneficiato per
l’evoluzione della propria personalità sono altresì tappe di più alto livello
che si raggiungono con l’aiuto della consapevolezza e di un lavoro clinico ed
emotivo approfondito.
Bibliografia
Bruch H., Patologia
del comportamento alimentare, Feltrinelli, Milano, 1977
Bruch H., La
gabbia d’oro, Feltrinelli, Milano, 1983
De Clercq F., Fame
d’amore, Rizzoli, Milano, 1998
Morelli R., Come
dimagrire senza soffrire, Mondadori, Milano, 2003
Minuchin
S. e altri, Famiglie psicosomatiche.
L’anoressia mentale nel contesto famigliare, Astrolabio, Roma, 1980
Recalcati
M., L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno
Mondadori, Milano, 2007