giovedì 9 luglio 2020

Dipendenza da cibo: deprivazione ed eccesso


- Annalisa Pistuddi, psicoterapeuta, Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze, ASST Melegnano Martesana
- Jacopo Calderaro, studente L.M. in Psicologia, Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento, Università degli Studi di Pavia

Il cibo è stato associato ad aspetti emotivi fin dalla nascita e l’alimentazione si lega ad altri elementi della quotidianità così tanto da potersi trasformare, in alcuni casi, in oggetto che crea una dipendenza.
Non è indicato come una sostanza che può danneggiare la salute ma può diventare pericoloso se prende le sembianze di qualcosa su cui centrare le proprie difficoltà e utilizzato come riferimento nelle relazioni.
L’ambiente famigliare, in contesti problematici rispetto alle relazioni, pare aver assunto un ruolo fondamentale nei disturbi dell’alimentazione su base psichica.
Dalle ricerche e dall’osservazione sui casi clinici trattati pare che coloro che sono afflitti da dipendenza alimentare siano i figli (in particolare le figlie) delle famiglie benestanti e questo dato pare sia rimasto negli anni piuttosto uniforme in tutto il mondo. Sembra altresì che la diffusione di questa dipendenza sia attribuita a fattori psicologici.
Sembra che siano le femmine a fare da protagoniste nella fase in cui si instaura la malattia, i maschi che sviluppano un rapporto di dipendenza con il cibo sono in misura minore e spesso i casi trattati riguardano il troppo cibo, per le ragazze invece la lotta è sulle piccole quantità.
L’aspetto socio-culturale legato alla moda, che propone un fisico longilineo, può essere stato foriero di un certo comportamento per le femmine ma se tutto arriva fino al rifiuto del cibo deve intervenire qualche altro fattore più incisivo a determinare una simile presa di posizione.
Uno stato mentale che diventa malattia del fisico se si giunge a un preciso stadio di magrezza costruita e può arrivare a uno stadio di autolesionismo pericoloso. Tanto pericoloso da mettere in gioco la vita di alcune ragazze che hanno portato avanti la posizione di rifiuto del cibo che è diventato un comportamento che ha originato la dipendenza.
Sembra che il periodo dell’adolescenza segni l’esordio dei disturbi alimentari in quanto le pressioni ambientali in relazione con le spinte degli istinti possono generare situazioni che creano disordini emotivi e predisposizione alle dipendenze di vario genere.
Se trattiamo di anoressia sappiamo che ciò significa mancanza di appetito ma non è di questo che si tratta nei casi di dipendenza da cibo perché innanzitutto le persone che ne sono affette non mancano proprio di appetito e poi l’interesse per il cibo rimane al centro della patologia.
Coloro che presentano questi problemi palesano un pensiero incessantemente orientato al proprio corpo, al peso e all’immagine, così da trasformare i momenti dedicati all’alimentazione in un vero supplizio costellato da preoccupazione e ansia.
Il desiderio di cambiamento, che non è ben definito ma che sottende un’ideale di magrezza, si concretizza attraverso la rinuncia a mangiare ma non è altro che la ricerca di qualcosa di più interiore che spesso passa attraverso una protesta. Quale può essere migliore contestazione di quella del rifiuto del cibo?
Numerose osservazioni di casi clinici evidenziano che sono le ragazze più belle a manifestare un rapporto difficile con il cibo, spesso i primi segnali sono colti dagli amici che possono diventare una risorsa se riescono a stare vicino a queste persone che nascondono una profonda sofferenza che non riguarda l’aspetto.
Chi rifiuta il cibo rifiuta anche i rapporti umani, cerca in tutti i modi di allontanare gli altri manifestando aggressività oppure scarso interesse ed evitamento delle relazioni e delle situazioni conviviali. Il rifiuto relazionale però in questi casi è mascherato dal problema con il cibo, ciò che gli altri pensano di solito è che la persona che ha dichiarato di sottoporsi a una dieta non frequenti molto le compagnie dei pari per non trovarsi davanti a succulenti pietanze.
I maschi sembrano essere più soggetti alle abbuffate e tendono più frequentemente all’obesità ma anche questo è un problema legato ad aspetti psichici e non alimentari, né riguarda problemi organici.
Anche questa modalità di ipernutrimento ha radici profonde, legate alla percezione di sé in relazione al mondo.
I rapporti con i genitori, in particolare i vissuti del bambino rispetto a queste relazioni, è ormai accertato de numerosi studi che fanno la loro parte nello sviluppo psichico di ogni individuo ma colpevolizzare la famiglia non serve.
Sarebbe utile coinvolgere ciascuno dei conviventi nei progetti di cura, far comprendere come definire il proprio ruolo nel sistema possa avere un valore al fine di rilevare dove e come qualcosa di relazionale non ha funzionato.
La letteratura sui problemi alimentari lancia un allarme riguardo all’età, la fascia più colpita dai disturbi alimentari è l’adolescenza, dai 14 ai 22 anni. Recenti osservazioni cliniche hanno segnalato che l’età di esordio non solo si è abbassata fino agli 8 anni ma si sono rilevati casi preoccupanti in persone di terza età.
Relazioni e comunicazione sono al centro dell’attenzione, ci sono studiosi che definiscono la dipendenza da cibo un disturbo della comunicazione. Forse non è l’unica strada da esplorare per definire e comprendere ma non c’è dubbio che l’avvento di Internet abbia polarizzato l’attenzione e gli scambi di notizie fra le persone, molto di più della televisione in passato.
La comunicazione è il canale attraverso il quale passano le emozioni che si possono comunicare verbalmente oppure con i comportamenti.
Sembra che il rapporto con il cibo si presti come messaggio non verbale, con l’obiettivo voler provocare negli altri l’attenzione rispetto a una sofferenza che non si riesce a comunicare altrimenti, spesso si tratta di un disagio psichico di non lieve entità.
La sofferenza si può riferire a traumi avvenuti in età precoce, che spesso non hanno avuto parola o ascolto. Forse il peggior trauma subito è stato sentire che il proprio dolore non poteva essere considerato, come se fosse trasparente. Così potrebbe essere nato il desiderio di scomparire o di essere più ingombrante.
Il dolore psichico si trasforma in problemi sull’immagine corporea, se si centra tutto lì si devia l’attenzione dai problemi di inadeguatezza interna che diventa però centrale rispetto alla scontentezza per il proprio aspetto, che prevale nonostante il tentativo di controllare i rapporti con gli altri attraverso la propria fisicità.
Si complica così la situazione rispetto alla valutazione della propria immagine e si crea confusione nell’adolescente fra ciò che vede e ciò che pensa vedano e considerino gli altri. Diventa un loop infinito quel desiderio di piacere a tutti e a non tollerare nessuna frustrazione relazionale, l’evidenza del rifiuto da parte di qualcuno o della considerazione marginale diventa un dramma per una persona che attraversa un periodo di fragilità.
Un modo per non fermarsi a pensare alle delusioni è centrare tutto sulla concretezza fisica e del cibo, per non sentire le proprie emozioni perché potrebbero essere troppo coinvolgenti e spaventose, così col tempo i disagi si mostrano attraverso il proprio aspetto che diventa a sua volta spaventoso per gli altri.
Questo meccanismo che non permette di confrontarsi con il proprio dolore psichico è lo stesso che si trova alla base delle dipendenze, in particolare quelle comportamentali.
Ciò che emerge dalla storia del paziente dipendente da cibo che arriva da un professionista per chiedere aiuto è che la sofferenza si sia spostata, invece di provare emozioni dolorose l’attenzione viene deviata su un oggetto concreto. Per quanto riguarda i problemi con il cibo si pensa che la scelta inconscia abbia radici nei vissuti del bambino circa la modalità di nutrimento avvenuta nei primi mesi di vita.
Le ricerche sui disturbi alimentari hanno iniziato a supporre che la figura della madre sia stata centrale in quanto primo oggetto fondamentale, che dà la vita e il nutrimento, e capace di escludere tutto ciò che c’è intorno dalla relazione con il bambino.
Il padre invece pare abbia assunto il ruolo di una figura marginale all’interno della famiglia e pian piano è stato escluso dalla diade madre-bambino. Alcuni padri vengono addirittura disprezzati dalle mogli e relegati a un ruolo subordinato dopo la nascita del primogenito. L’uomo che non si ripropone come figura che fa da ponte tra la famiglia e l’esterno, proteggendo così la relazione madre-bambino dagli eccessi, finisce per soccombere ed essere escluso per un lungo periodo, sentirsi poco utile, rischiando di diventare poco partecipe e incisivo anche nel periodo dell’adolescenza dei figli.
Per molte madri di pazienti il ruolo centrale che hanno sentito e che le ha preoccupate molto è stato essenzialmente quello di offrire nutrimento e in questo modo hanno alleviato le loro principali ansie nell’accudimento del bambino.
In alcune famiglie in cui è emerso un problema con il cibo si è rilevato che i figli hanno il ruolo di essere l’unico collante per la sopravvivenza del matrimonio e spesso questa situazione porta a una confusione di ruoli generazionali.
I problemi causati dal disturbo del comportamento alimentare sono anch’essi una delle modalità disfunzionali che tiene insieme le relazioni in alcune famiglie problematiche che altrimenti avrebbero smesso di essere coese o si sarebbero disgregate.
Questo mette luce anche sull’iperinvestimento nei doveri che i figli problematici esprimono, spesso sono studenti modello e perfezionisti anche se nascondono una bassa autostima e scarsa fiducia negli altri.
Sulla responsabilità che i figli problematici possono sentire ma non esprimere, nel tenere coesa la famiglia con l’espressione della sintomatologia, hanno investito troppo della loro vita emotiva a discapito della considerazione delle proprie sensazioni e della propria evoluzione.
Questo legame diventa, per questi figli, una dipendenza dalle relazioni e dalla propria percezione che può diventare anche con caratteristiche deliranti, se sostiene di poter influire con le proprie azioni sulle relazioni che intercorrono fra i genitori.
Il confine generazionale, in queste famiglie, si è molto affievolito o non esiste più, la sua mancanza genera un disordine mentale che impedisce di pensare i termini astratti e fa credere che ci si possa aggrappare solo alla concretezza delle cose.
Una regressione, per l’adolescente problematico, per non sentire tutta la responsabilità di non essere accettati dagli altri e talvolta anche un elemento di dissapori e discordie fra i genitori in quanto portatore di un disagio.
I genitori di un paziente che presenta una dipendenza da cibo spesso paiono una coppia che abbia simulato un legame ai tempi in cui erano senza figli e sembra che entrambi abbiano esacerbato i loro dissapori solo dopo l’avvento della nascita del primo figlio.
Così la madre può aver avuto l’occasione di crearsi una nuova opportunità relazionale investendo in un’alleanza con il figlio ed escludendo il padre per considerarlo solo come portatore di cose concrete come i soldi per mangiare.

Chi si occupa della dipendenza da cibo e come
I casi delle persone che sviluppano una dipendenza alimentare sono complessi, in particolare se raggiungono un elevato livello di gravità.
Pertanto occorre la presenza di un pool di specialisti dedicati. Le figure centrali nella presa in carico delle persone sono: gli psicoterapeuti, gli psichiatri, i neuropsichiatri infantili, i professionisti esperti in dipendenze, i dietologi, gli endocrinologi e altri specialisti in medicina interna come i ginecologi, i gastroenterologi, gli ortopedici per esempio.
Tutti coloro che, come specialisti della medicina e della psicologia, possono intervenire per il miglioramento della situazione di vita del paziente. Anche i volontari spesso sono presenti nel pool dedicato alla cura, ognuno fa la propria parte ben definita con l’obiettivo di rimettere in piedi queste difficili vite senza venirne divorati.
E’ possibile effettuare ricoveri ospedalieri per alcuni periodi in cui avviene un trattamento medico necessario a prevenire disordini più gravi, si inizia un percorso psicologico e i pazienti vengono anche coinvolti in attività fisiche e in sessioni in cui avviene una rieducazione all’alimentazione. 
Alcune comunità terapeutiche hanno avviato programmi dedicati ai disturbi alimentari e lavorano in contatto con ospedali e associazioni. La permanenza nelle comunità serve per avviare un lavoro più centrato sugli aspetti psicologici ed educativi, per accompagnare i pazienti verso la possibilità di diventare autonomi dal punto divista emotivo.
Spesso questi pazienti soffrono per il giudizio altrui, non tollerano di non essere considerati al centro dell’attenzione e sperano di poter modificare l’opinione che gli altri potrebbero avere di loro. Il miraggio che inseguono è di non dover continuare a contare sugli altri ma sperano che gli altri dipendano da loro. Situazione di difficile realizzazione.
Il problema del giudizio esterno nei propri confronti e la corsa a modificarlo senza alcuna presa di coscienza che non è altro che questo meccanismo che crea la dipendenza relazionale è un altro argomento che sarà affrontare nel corso di un trattamento.
Nelle ASL sono presenti ambulatori con professionisti formati sull’argomento che si trovano nei dipartimenti di prevenzione, dipartimenti dipendenze e dipartimenti per le attività socio sanitarie integrate che contengono i consultori famigliari.
Altresì negli ospedali sono presenti ambulatori dove svolgono attività psichiatri, psicologi e neuropsichiatri che possono valutare e predisporre o indicare una modalità per un progetto di cura per casi come questi.
La via da seguire è innanzitutto comprendere se di disturbo alimentare si tratta e di che tipo oppure se la sintomatologia si riferisce a un’organizzazione di personalità dove il cibo riguarda una parte della patologia e non arriva a un’evoluzione centrata solo sull’alimentazione.
Per una prima ipotesi il medico e il pediatra di base possono essere i punti di riferimento più vicini a cui rivolgersi per avere delle indicazioni.
L’offerta di strutture e di professionisti è variegata e in Italia gli sviluppi su questo argomento hanno trovato interesse ed evoluzione negli ultimi decenni così come gli specialisti di varie discipline della sanità, sia pubblica che privata, hanno avuto modo di accostarsi a queste problematiche.



Manifestazioni, problemi che si generano e modi di affrontarli
La dipendenza da cibo può avere diverse manifestazioni, non saranno classificate e descritte in modo particolareggiato in questo articolo. Ciò che sembra più urgente e importante è comprendere che celano una sofferenza enorme e in quale modo sia sorta, come si sia sviluppata e quali possono essere le vie migliori affinché si conduca la persona verso un sollievo.
Chi ne è affetto diventa una vittima del cibo e delle modalità con cui si accosta ad esso, tutti gli studi evidenziano che questo tipo di disagio colpisce molte persone che provengono da situazioni sociali apparentemente tranquille e insospettabili.
E’ qui che si annida una sofferenza che non trova le parole, spesso si tratta di persone su cui sono state poste aspettative che loro stesse sentono come enormi, si sentono pertanto inadeguate e costrette a nascondere la propria imperfezione. Un grande problema che non riescono a sopportare è non poter appagare chi le ha messe al centro dei propri desideri senza considerare i loro.
Non possono protestare con le parole perché verrebbero emarginate dal proprio ambiente, la lotta per sopravvivere diventa duplice perché la propria immagine è fragile, sia verso l’esterno che in famiglia dove sono nate le aspettative nei loro confronti.
Non si può né dire né tantomeno pensare di poter fallire, quindi la corsa è inevitabilmente verso la perfezione.
Nell’anoressia, per esempio, la perfezione viene spesso idealizzata nel riuscire a fare a meno di tutto, si concentra sul cibo ma il desiderio recondito sarebbe di poter fare a meno di essere vittime del giudizio degli altri.
Qui il problema sembra centrato sull’autostima, sull’immagine di sé che però viene costantemente messa a repentaglio perché la persona si sente spesso svalorizzata, talmente enormi sono state percepite le aspettative degli altri nei suoi confronti. Ma la stima di sé non è l’unica difficoltà.
Qualche paziente che rifiuta il cibo immagina così di sparire dalla possibilità che le vengano fatte delle richieste a cui non pensa di saper rispondere adeguatamente, come se non potesse comunicare a parole il proprio disaccordo.
Non poter usare le parole è un altro problema enorme che interviene nei casi in cui non è possibile contraddire gli altri, come se fosse scontato che il linguaggio serva solo per scontrarsi e non per incontrarsi.
Le difficoltà di comunicazione e di relazione sottendono il disagio di non poter trovare negli altri persone disponibili all’ascolto, i genitori spesso sono vissuti come richiedenti e centrati sul gratificare le proprie aspettative, non disponibili ad ascoltare i desideri dei figli e spesso nemmeno quelli del proprio partner.
Con il radicarsi di questi vissuti i ragazzi non possono far altro che comunicare il proprio disagio attraverso un comportamento. L’alimentazione è il comportamento che, con il risultato scolastico, ha più evidenza e più possibilità di destare preoccupazione negli adulti delle famiglie problematiche.
Alcuni accadimenti rimangono situazioni considerate a livello piuttosto superficiale finché non emerge un problema che “pesa” in famiglia. Quel problema che può sfociare in malattia, in manifestazioni di sofferenza fisica ed essere evidente anche agli occhi di tutti che qualcosa nell’adolescente sta succedendo in modo prorompente.
Ecco allora che ci si accorge che qualcosa non è andato per il verso giusto e che la situazione si protrae da qualche tempo, tutto viene talvolta confuso con qualche problema non ben definito ma che si può riferire alla crescita, per essere ancora una volta tutti evitanti rispetto al dolore psichico.
Purtroppo però quando i genitori si accorgono che la situazione è precipitata si spaventano e molti ricorrono alle richieste di interventi magici o salvifici della situazione, senza comprendere che sono anche loro stessi a dover mettersi in gioco per migliorare la situazione problematica che coinvolge tutti.
A questo punto le madri che si sono sempre considerate molto presenti in famiglia si sorprendono per la loro inefficacia e si annullano nei sensi di colpa; i padri relegati in un ruolo marginale non riescono a trovare un modo diverso di proporsi.
Evidentemente non sono attrezzati per affrontare il problema da soli, in primo luogo perché non sanno riconoscerlo né misurarne l’entità. Per questo vanno innanzitutto aiutati a comprendere che cosa sta succedendo e come si può trattare il problema.
I casi di anoressia e di bulimia sottendono problematiche intrapsichiche e relazionali che vanno riconosciute, non solo dagli specialisti ma anche dagli attori della patologia, a cominciare dalla famiglia che dovrà, se disponibile, essere parte del processo terapeutico del paziente.
Va tenuto conto della complessità dei casi, non solo dal punto di vista del sistema famigliare ma anche considerate le storie personali di ognuno dei membri. E’ importante che emergano le loro fantasie e aspettative, che hanno avuto in passato, che hanno nell’attualità e rispetto al futuro di tutti e nei confronti della malattia che ha colpito uno di loro.
Considerare una visione globale della malattia è un concetto moderno di trattamento, agli esordi degli studi sui disordini alimentari non veniva valorizzato il ruolo dell’ambiente famigliare.
Le famiglie venivano coinvolte in modo marginale, dando loro semplici compiti simili a ricette anche piuttosto imprecise, si diceva loro di essere accomodanti e gentili con il paziente e di cercare di non far salire la tensione domestica. Ciò sottendeva l’ipotesi che il paziente avesse una bassa sopportazione dello stress. Ma evidentemente non era sufficiente dal punto di vista di una lettura completa del disagio.
Si è poi man mano posto l’accento sul ruolo degli altri membri della famiglia, sui comportamenti indotti e reciprocamente influenzanti, sui confini generazionali e la loro natura. I famigliari sono stati coinvolti, ove possibile, nel processo terapeutico, senza intenti colpevolizzanti ma per far vivere loro il problema che fino ad allora sembrava celato e renderli parte attiva di una possibile evoluzione della situazione.
Oggi è evidente che per intervenire in un problema che riguarda una dipendenza sarebbe importante che i componenti dell’ambiente famigliare in primo luogo e anche altre persone affettivamente legate al paziente potessero, in qualche modo, partecipare al percorso.
I problemi da affrontare, insieme a quello principale che emerge riguardo al cibo, sono quelli di comunicazione, di relazione, di linguaggio ma non bisogna assolutamente tralasciare di osservare il processo del pensiero, come si genera e come prende forma.
Spesso si è evidenziato come le concezioni parentali dei bisogni dei figli potessero portare il bambino a interpretare con confusione i segnali degli adulti. Pertanto anche i segnali generati dal proprio corpo, come per esempio in questi casi la sensazione di fame e di sazietà, potrebbero essere stati terreno di malintesi e incomprensioni fin dai primi mesi di vita del bambino.
Molti genitori si sono attenuti, nell’educazione dei propri figli, nel trasmettere credenze e modalità indiscutibili, apprese dai propri genitori e mai messe in discussione o da qualche manuale pedagogico spesso interpretato con rigidità, invece di sperimentare se stessi nell’ascolto del proprio bambino.
Questo modo, se posto con inflessibilità per timore di sperimentarsi in una dualità interattiva nuova per la madre e in una complicità condivisa nei valori per il padre, ha spesso dato luogo a fissità che hanno costruito incomprensioni reciproche e distorsioni della formazione della personalità del bambino e nel suo sviluppo intaccando anche lo stadio dell’adolescenza.
Per ricostruire la fiducia reciproca nei membri della famiglia e per poter aiutare il paziente a ristabilire una modalità diretta e sentita come desiderio che può nascere all’interno di sé, e così proposto al mondo, occorrono i contributi degli specialisti che si possono dedicare al problema collaborando fra loro con l’obiettivo un progetto di guarigione condiviso e costruito per il paziente, fatto di tappe che si concatenano e si completano.
Il problema che si è riscontrato nei progetti di cura riguarda non solamente la ricerca di ripristinare situazioni in cui il paziente si ritrovi a poter riconoscere e ridiscutere i propri desideri e bisogni all’interno della famiglia e del suo spazio sociale.
Una parte importante è, in particolare per la psicoterapia, considerare la sofferenza e i profondi disagi emotivi del paziente che fino ad un certo punto sono stati scotomizzati dal comportamento sintomatico che ha deviato la sua attenzione e quella degli altri sul cibo.
Questi sono casi per cui lavorare in modo profondo e duraturo dal punto di vista del trattamento psicoterapeutico, in particolare se sono casi in cui la patologia alimentare persiste da tempo e ha radici ben strutturate nel mondo interno della persona sofferente.
Spesso si consiglia (oltre al coinvolgimento famigliare) un lavoro centrale dal punto di vista terapeutico basato su una psicoterapia individuale con ritmi intensi che sarà possibile durante, ma sarà importante proseguire con diligenza dopo, un periodo di ricovero che avrà ristabilito le condizioni fisiche del paziente.
Non stiamo parlando di casi che hanno lievi e recenti manifestazioni disfunzionali con il cibo, le quali vanno allo stesso modo considerate e comprese ma come situazioni per cui si presume un livello evolutivo e di guarigione di gran lunga meno problematico e tortuoso di quelle gravi e persistenti nel tempo.
In qualsiasi caso una diagnosi di personalità, effettuata da uno specialista, è uno step fondamentale per la comprensione del paziente e dei suoi bisogni.
Alcuni problemi che accomunano questi casi riguardano la percezione distorta delle emozioni, il problema dell’immagine in particolare quella del corpo, l’autostima, la fiducia in sé e nell’altro, la percezione dell’incapacità di manifestare se stessi.
In alcuni casi la sofferenza e la preoccupazione dei famigliari emerge in modo prorompente e i terapeuti sentono di suggerire anche ad alcuni di essi un percorso di psicoterapia individuale. Alcuni membri della famiglia, che hanno avuto all’inizio o hanno pensato di aver solo il ruolo di accompagnatori, scorgono il bisogno personale di comprendere se stessi all’interno di un sistema problematico.
La motivazione spesso è accesa proprio nei genitori di questi pazienti e non è difficile incontrare il loro accordo a intraprendere, ognuno per sé, il proprio percorso individuale. Ciò potrebbe avvenire dopo aver fatto esperienza di un percorso famigliare o di coppia.
Gli obiettivi base di un percorso di cura potrebbero essere riassumibili nel ripristinare il peso adeguato e il modello di nutrizione che consenta di vivere senza effetti collaterali, nel raggiungere un adattamento soddisfacente nella famiglia, a scuola o al lavoro, nelle relazioni con i coetanei e nel sociale.
Un livello superiore di evoluzione riguarda l’affrontare i disturbi del comportamento, dell’affettività e del pensiero. Aver compreso che il trattamento psicoterapico può essere una risorsa da considerare in momenti di difficoltà della vita e soprattutto averne beneficiato per l’evoluzione della propria personalità sono altresì tappe di più alto livello che si raggiungono con l’aiuto della consapevolezza e di un lavoro clinico ed emotivo approfondito.

Bibliografia
Bruch H., Patologia del comportamento alimentare, Feltrinelli, Milano, 1977
Bruch H., La gabbia d’oro, Feltrinelli, Milano, 1983
De Clercq F., Fame d’amore, Rizzoli, Milano, 1998
Morelli R., Come dimagrire senza soffrire, Mondadori, Milano, 2003
Minuchin S. e altri, Famiglie psicosomatiche. L’anoressia mentale nel contesto famigliare, Astrolabio, Roma, 1980
Recalcati M., L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, Milano, 2007

GIOCO D’AZZARDO, DIPENDENZA , MALATTIA, PSICOPATOLOGIA


- Annalisa Pistuddi, psicoterapeuta, Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze, ASST Melegnano Martesana
- Jacopo Calderaro, studente L.M. in Psicologia, Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento, Università degli Studi di Pavia

Il gioco d’azzardo presume una posta in palio, che siano soldi o valori, non ritirabili dopo la puntata e che si presume possano far ottenere qualcosa di più dell’entità puntata. E’ possibile che ciò avvenga senza destare alcun problema nel giocatore, che la sitauazione non degeneri in una dipendenza nè in un comportamento compulsive e perciò incontrollabile dall’individuo stesso.
Se il comportamento diventa disadattivo, ricorrente, persistente, che rovina le attività quotidiane, legate al ruolo sociale, famigliare, lavorativo lascia intravedere un problema di cui solo uno specialista può definirne l’entità.
Diversi studi e studiosi della psicologia, della psichiatria della clinica delle dipendenze hanno considerato diverse situazioni, variabili e diversi livelli di gravità. Spesso la storia del soggetto può aiutare a dare un senso al suo coinvolgimento in questa attività.
Difficilmente è il denaro la fonte della spinta o comunque lo si cita in quanto mezzo o illusione di giustificazione al proprio comportamento che ottiene sostanzialmente sconfitte e rincorse a colmare perdite.
Freud (1928) sostiene che il gioco compulsivo trovi le sue radici nel desiderio edipico d’amore per la madre e il decesso per il padre, quindi nel gioco l’individuo troverebbe una sorta di sollievo masochistico per il senso di colpa che lo opprime per aver desiderato la scomparsa del padre dalla scena. Il giocatore tenderebbe a giocare, soprattutto in fase di perdita, perché mosso da un masochismo inconscio che gli permette così di bilanciare il senso di colpa generato dal desiderio di eliminare il padre. Tra i contributi psicoanalitici sull’argomento ci sono le riflessioni di Rosenthal (1992) che riguardano il giocatore patologico. L’attrazione più forte del gioco pare essere l’imprevedibilità del risultato che spinge a giocare per controllare l’incontrollabile, come conseguenza di un senso profondo di debolezza, che potrebbe essere sconfitto. La funzione psicologica del giocare è di liberare dalle tensioni estreme con la ripetizione e l’anticipazione delle tensioni stesse, un modo che fa credere di controllare e gestire gli impulsi (Fenichel 1945).
Il desiderio inconscio di perdere (Bergler 1957) permetterebbe al giocatore di mantenere il suo equilibrio psichico; la ricerca inconscia della sconfitta e dell’umiliazione sarebbe un meccanismo difensivo per fronteggiare l’aggressività e il senso di colpa suscitati dalle limitazioni dei genitori e dalla loro imposizione del principio di realtà su quello del piacere.
I genitori non possono essere aggrediti apertamente in quanto figure necessarie alla sopravvivenza e non è possibile per il bambino gestire l’aggressività e il senso di colpa, che sono sentimenti che non possono arrivare alla coscienza perché sarebbero insopportabili. Per mantenerli quieti l’unico modo che il bambino ha è di rivolgerli contro di sé. Così il dolore, la punizione e la colpa vengono trasformati in piacere e ci sarà la tendenza a cercare situazioni punitive e penalizzanti.
In molti giocatori è presente un’organizzazione strutturale di tipo narcisistico, queste persone devono continuamente provare a loro stesse il proprio valore e le proprie capacità che considerano però sempre a rischio, ricorrono pertanto a primitivi meccanismi di difesa, quali la negazione, la scissione, la proiezione e ricostruendosi continuamente l’illusione di onnipotenza. Il narcisismo si colloca fra i disturbi di personalità e può manifestarsi con un funzionamento psichico che, per salvare a tutti i costi l'autostima perennemente vacillante, arriva a mettere in atto comportamenti a rischio a volte estremi.
Il giocatore può avere altresì una struttura di personalità nevrotica. Si sente fortunato, si illude di esserlo, e si sente spinto a provare e riprovare di volta in volta il destino e la sorte sperando di vincere. Le condotte ossessivamente ripetitive servono per ridurre l'ansia e la tensione interiore. La compulsività diventa invasiva fino a raggiungere lo stato di coazione. L'impulsività, la compulsività e l'ossessività si rintracciano come sintomi importanti di una schiera eterogenea di disturbi psichiatrici.
Una lettura psicopatologica del problema consente di rilevare che lo spettro dei disturbi impulsivi e compulsivi rappresentano gli estremi di un continuum che va dalla sovrastima del pericolo col suo fobico evitamento ad una ridotta percezione del rischio di determinati comportamenti e ad una spasmodica ricerca di situazioni nuove ed eccitanti. La condotta impulsiva definisce un modo di dire o di agire senza riflettere. Tutti i comportamenti umani possono anche avvenire all'insegna del'impulsività: giocare, lavorare, spendere soldi, mangiare, bere, guidare, fare sesso. Quando prevale l'impulsività l'individuo si espone a rischi particolari perchè esegue quelle condotte senza rifelttere e spesso in modo esagerato e spericolato. E' ricorrente il fallimento nel resistere e nel regolare desideri e impulsi. La "triade" sintomatica formata da impulsività, compulsività e ossessività connota frequentemente sia i disturbi di personalità, specie il tipo borderline, sia l'abuso di sostanze che i disturbi della condotta come il gambling patologico. (Nizzoli 2011).
Altri autori evidenziano la presenza di condizioni di comorbilità tra il gioco d’azzardo patologico e altri disturbi psicologici. Spesso sono presenti più di un disordine psicologico, per esempio i disturbi dell’umore (50% circa dei casi), la dipendenza da alcol e sostanze, le condotte suicidarie, i disturbi di personalità (Leisure e al. 1986, 1993; Hollander e al. 1995).
Una recente review rileva che sia i giocatori problematici che quelli patologici hanno tassi elevati per disturbi comorbili. (Felicity 2011). La più alta prevalenza media è stata riscontrata per dipendenza da nicotina (60,1%), seguita dal disturbo da uso di sostanze (57,5%), da disturbo dell'umore di qualsiasi forma (37,9%) e da disturbo di ansia (37,4%).
Questi dati considerano l'esistenza sia di un quadro famigliare pervaso da sofferenza, incapacità di introspezione dei componenti e di trasmettere un modello sano (Pistuddi 2009), inoltre suggeriscono di porre attenzione ad una diagnosi non solamente legata al contesto ma anche alla struttura di personalità dell'individuo affetto da dipendenza da gioco d'azzardo per la scelta della tipologia di presa in carico per la cura.
I modelli multifattoriali di approccio al problema, che vedono nell'incontro individuo-sostanza/comportamento-ambiente l'origine e il consolidarsi della condotta dipendente, mettono in luce il ruolo strategico della relazione educativa e della formazione in generale (CEI 2009).
Le persone che ricercano la sensazione rischiosa, i sensation seekers (Zuckerman 1994) presentano dei tratti di personalità ben definiti.
La propensione alla ricerca di avventura e del brivido, la disinibizione, una spiccata sensibilità alla noia, intolleranza e inquietudine non appena la si sente arrivare. Il bisogno di sensazioni forti è legato alla carica di eccitazione che esse generano, spesso in questo quadro sono correlati, anche in momenti diversi della vita, diversi comportamenti a rischio.
Ecco perché la propensione al gioco nei giovani adulti va considerata con la dovuta preoccupazione; spesso coloro che ne diventano dipendenti vivono in famiglie in cui è condiviso e sembra accettato il comportamento della ricerca del rischio e della vincita di denaro attraverso lotterie, oppure nei casi più preoccupanti i genitori sono abusanti o dipendenti da alcol, sostanze o gioco d'azzardo e non vivono la pericolosità del gioco per i propri figli.
Mentre le tossicodipendenze come ad esempio da alcol, da eroina e da psicofarmaci procurano ottundimento e per questo vengono ricercate, il gioco d’azzardo sembra teso verso la ricerca di un nuovo sé esaltato, vittorioso, potente e vincitore. La ricerca ossessiva sembra un’illusione narcisistica di un’immagine di sé migliore e trionfante da sovrapporsi ad un’immagine reale sentita spesso come svalutata.
La dimensione del gruppo dei giocatori ha un valore di contenimento rassicurante che, per le persone con una struttura di personalità più fragile soprattutto per i più giovani, è importante perché li aiuta a riconoscersi come parte di un tutto che li accetta proprio perchè nel ruolo di giocatori.
Un segnale di un comportamento a rischio è legato al vissuto di disconferma e disvalore che la persona sente quando è privo dell’oggetto, il gioco,  che sembra aver assunto quasi il ruolo di un oggetto transizionale illusorio, quell’oggetto che ha il potere di facilitare uno svincolo dalla situazione quotidiana reale vissuta in modo svalutato, dalla dipendenza dalla famiglia, da un Sé fragile e impotente.
Alcuni sperano di riuscire così ad emergere come leader nel gruppo, tentando un processo di individuazione che li riporta però alla situazione di dipendenza.
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) ha incluso nell’ambito delle dipendenze anche il gioco d’azzardo, considerandolo un disturbo non correlato a sostanze, in altre parole un comportamento di addiction.
Si può parlare però di dipendenza da gioco d’azzardo quando sono presenti disagi alla vita quotidiana, sia relazionale e famigliare che lavorativa e la più moderna calssificazione internazionale parla, per la precisione di “Disturbo da gioco d’azzardo” con livelli di gravità differenti.
Il comportamento problematico dev’essere persistente oppure ricorrente e portare compromissione o disagio clinicamente significativi entro un periodo di 12 mesi. La condizione necessaria per la diagnosi è che devono essere presenti almeno 4 dei seguenti criteri. Fino a 5 criteri è considerato un disturbo lieve, da 6 a 7 criteri, di gravità moderata e se sono soddisfatti 8-9 criteri il disturbo è considerato di grave entità.
Il comportamento si può quindi considerare un distubo se presenta almeno 4 delle condizioni sottoelencate nel periodo di 12 mesi. Il soggetto:
-        Ha bisogno, per giocare d’azzardo, di qualtità crescent di denaro per ottenere l’eccitazione desiderata
-        È irrequieto o irritabile se tenta di smettere o ridurre di giocare d’azzardo
-        Ha fatto sforzi ripetuti e infruttuosi per controllare, ridurre o smettere di giocare d’azzardo
-        È spesso preoccupato dal gioco d’azzardo (con pensieri persistenti che gli fanno vivere le esperienze passate di gioco d’azzardo, analizzare gli ostacoli e pianificare la prossima avventura, pensre ai modi di ottenere denaro con cui giocare d’azzardo)
-        Spesso gioca d’azzardo quando si senta a disagio (colpevole, indifeso, ansioso, depresso)
-        Dopo aver perso denaro al gioco d’azzardo spesso torna un’altra volta per ritentare e rincorrere le proprie perdite
-        Mente per occultare l’entità del coinvolgimento nel gioco d’azzardo
-        Ha messo in pericolo o perso una relazione significativa, il lavoro, opportunità di studio o di carriera a acusa del gioco d’azzardo
-        Conta sugli altri per procurare il denaro necessario a risollevare situazioni finanziarie disperate causate dal gioco d’azzardo
Se i sintomi sono continui e durano per più di un anno il disturbo si può considerare persistente, se sono presenti per mesi ma intervallati da periodi meno persistenti o in cui l’individuo non gioca, il disturbo può essere presente ma episodico.
Ciò non significa che sia meno dannoso o che non debba essere presa uin considerazione una cura. E’ consigliabile rivolgerisi a uno specialista, psicologo, psicoterapeuta, psichiatra esperto in dipendenze comportamentali al fine di avere un corretto parere diagnostico e un progetto di cura.
In Italia sono presenti nelle ASL i Servizi per le Dipendenze che sono gli ambulatori deputati alla diagnosi e alla cura del disturbo da gioco d’azzrdo. Sono altresì presenti specialisti che operano privatamente con una formazione e un’esperienza adeguate alla presa in carico di situazioni personali e famigliari compromesse dal disturbo da gioco d’azzardo.
Esistono anche iniziative di gruppi di auto aiuto portate avanti da ex giocatori che riescono a creare nel gruppo un clima emotive di reciproco sostegno e valorizzazione delle risorse di ogniuno. In genere si consiglia di frequentare questi gruppi contemporaneamente o in seguito a una cura specialitica.
Altre caratteristiche che supportano la diagnosi possono essere il pensiero distorto come superstizioni, idee di controllare gli eventi, negazione delle peridite, idea che sia il denaro la causa di tutto nella propria vita ma anche la possibile risoluzione magica di ogni problema.
Possibile che siano presenti caratteristiche di impulsività, competitività, problemi legati all’autostima tanto da rendere importante l’idea di potere e controllo sugli altri e di ottenere la loro approvazione attraverso il denaro.
Alcuni hanno caratteri chiusi, si isolano e il gioco favorisce questi stati, tanto da farli sentire indifesi, di cattivo umore o in colpa.
Il gioco problematico può colpire i giovani, gli adulti, gli anziani. Non c’è un’età che manifesta maggior rischio di compromissione, l’ambiente favorente è invece un fattore più favorente. Coloro che vivono in contesti in cui il rischio e la modalità dell’azzardo è condivisa sono più esposti.
Sembra che le donne inizino più tardi a giocare, che ricerchino situazioni di gioco in compagnia di altre persone, siano meno inclini a commettere furti, truffe ma che riescano a spendere in poco tempo tutto il denaro a loro disposizione, fino a trovarsi senza soldi per mangiare.
Gli uomini in genere iniziano in età più giovane a giocare, spesso in adolescenza, giocano anche da soli centrando la loro motivazione sul potere del denaro e dell’immagine di ricchezza. Sono più predisposti a procurarsi il denaro anche con mezzi illeciti, a ricorrere a prestiti e a rincorrere le perdite ad ogni costo.
Il comportamento legato al gioco d’azzardo diventa una dipendenza quando si arriva a non poter fare emotivamente a meno di quel comportamento perché fornisce un beneficio emotivo, permette di rimanere fuori dagli altri problemi, permette di non pensare ad altro che alle strategie di gioco ed è così che il comportamento compulsivo diventa stabile e si struttura nella vita del soggetto.
C’è da considerare che l’illusione di vincere è un motore molto potente perché legata ad un antico desiderio che persiste nel tempo, seppur si manifesti durante la vita in forme diverse dalle esigenze infantili, il desiderio di essere protetti.
Ci si illude anche perché non si è in grado di accettare la realtà deludente, ma con le proprie povere risorse si riesce solamente a costruirne una falsamente e momentaneamente appagante.
Tutti gli studi clinici sull’argomento sottolineano l’importanza di un aiuto specialistico per uscire dal circolo vizioso del problema, aiuto che si declinerà diversamente e che terrà in considerazione le motivazioni e le risorse dell’individuo e del suo contest di riferimento.

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USO DI INTERNET, QUOTIDIANITA’ O DIPENDENZA? Come iniziare a vedere i rischi


USO DI INTERNET, QUOTIDIANITA’ O DIPENDENZA? Come iniziare a vedere i rischi

Annalisa Pistuddi
psicoterapeuta, Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze, ASST Melegnano Martesana, Professore a.c. Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Jacopo Calderaro
studente L.M. in Psicologia, Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento, Università degli Studi di Pavia

I problemi relativi all’uso e abuso di Internet, che si possono spingere fino alla dipendenza, sembrano generare un comportamento che può avere delle conseguenze sulla vita e sulle relazioni, sulla socializzazione e sul lavoro. Sono da valutare i rischi e le conseguenze di questo comportamento, come e se può diventare limitante alla vita.

La dipendenza da Internet sembra poter essere considerata come una patologia a sé. Gli studi sono recenti e la comunità scientifica sta discutendo anche della natura da attribuire al disturbo, se si tratta cioè di un disturbo che fa parte delle dipendenze, dei disturbi ossessivo-compulsivi, o delle personalità dominate dall’impulsività e dall’onnipotenza.

Il fenomeno è stato rilevato negli adulti ma anche in bambini e adolescenti, e questi ultimi paiono essere i più esposti al rischio di cadere nella rete del web.
Secondo l’indagine ISTAT del 2008 “La vita quotidiana di bambini e ragazzi”, il cellulare è il primo strumento per cimentarsi nella creazione e manipolazione di contenuti multimediali.
In media l’uso sistematico di internet è, per molti bambini, intorno ai 10 anni, ma una percentuale importante ne fa uso già a 6 e l’inizio della conoscenza delle app e del loro funzionamento può avvenire verso i 18 mesi di età.
Pare che ci siano delle osservazioni recenti della ricerca citata che testimonino che anche a partire da uno/due anni, se il bambino ha a disposizione uno strumento informatico dotato di icone che fungono da simbolo, le app, può essere in grado di usare giochi e interagire attraverso i simboli, in particolare se gli adulti di riferimento sono impegnati sui dispositivi mobili anche durante le ore trascorse con i figli.
La positività di questo fenomeno è lo sviluppo delle abilità cognitive come attenzione, concentrazione e immediatezza, sono però da calibrare con i tempi di esposizione e questo può essere fatto da un adulto attento alle esigenze del minore e consapevole non solo delle opportunità ma anche dei rischi.
Il web viene usato dagli studenti per i compiti, per i giochi, per scaricare musica e per collegarsi ai social network.
Molti esperti consigliano di evitare l’uso della tecnologia solo come divertimento o distrazione insensata.
Il rischio è di estraniarsi dalla realtà e dalle relazioni vis a vis, sviluppando così una sorta di paura di incontrare l’altro se non attraverso il mezzo e conseguentemente mostrando un’immagine di sé e ricevendo un’immagine dell’altro pre-confezionate. I rischi sono evidenti: scarsa autenticità nelle relazioni e possibilità di farsi conoscere e conoscere l’altro solo per alcuni aspetti, l’isolamento dalle relazioni sociali autentiche,  che possono sfociare in stati a sfondo depressivo e chiusura in se stessi.
Altre ricerche fatte su giovani in Italia indicano che in media tra gli studenti di scuole medie inferiori e superiori un 20% rappresenti situazioni a rischio, il 30% sia in fase di abuso e il 5% manifesti sintomi di dipendenza dallo strumento.
Ciò che emerge dai dati poi è purtroppo una carenza di presenza dei genitori che risultano poco informati della “seconda vita” dei ragazzi, quella on line.

Sarebbe necessario organizzare iniziative di prevenzione con il patrocinio delle scuole e che coinvolgessero sia studenti che genitori.  
Se i ragazzi che usano Internet si sentono considerati dai genitori, se un adulto si interessa autenticamente alle loro propensioni e scelte e non solo mette loro delle regole limitanti o usa solo strategie di controllo, il rischio di Internet dipendenza si potrebbe notevolmente ridurre.
In un’interazione di questo tipo il web potrebbe essere vissuto da entrambe le parti in modo costruttivo, soprattutto della relazione genitore-figlio.
L’adulto, se può altresì osservare ciò che succede al figlio nell’approccio con Internet, può avere una visione di comprensione e considerazione del problema e cercare il modo migliore per intervenire, se ciò si rivela necessario.
Conoscere i comportamenti indicativi di un uso smodato di Internet potrebbe aiutare genitori e famigliari a riconoscere i rischi e, in alcuni casi, prevenire un eventuale attaccamento eccessivo dell’adolescente che potrebbe generare un disturbo.
Per quanto riguarda i ragazzi sembrano essere più diffuse le attività di comunicazione attraverso chat line e social network, seguono blog, giochi on line e navigazione sul web.
L'interesse determinato per la Rete può anche rappresentare l’entusiasmo che bambini e adolescenti mostrano per le cose che li appassionano, in particolare all’inizio delle loro esplorazioni. Ci sono però alcune reazioni per l’assenza dell’oggetto web o comportamenti in sua presenza, che possono essere preoccupanti.

Una persona, adulto o minore, che presenta alcuni sintomi non fa di lui in Internet dipendente, i segnali citati possono essere solamente una traccia di osservazione. Prima di intervenire e di dare per scontata una patologia occorre sentire il parere di uno specialista.
I segnali di disagio che si evidenziano all’osservazione di un genitore o di un famigliare attento possono manifestarsi nei seguenti comportamenti.
Quando è collegato in rete, il soggetto manifesta palesemente un senso di benessere fino all’ euforia, oppure è assorbito e non considera più ciò che lo circonda, si comporta come se gli altri non ci fossero e il contesto reale intorno a sé non ci fosse in quel momento.
Sembra che si rilevi una vera e propria incapacità di staccarsi da Internet. Il soggetto resta collegato per tempi lunghissimi, non si accorge del tempo che passa e anche quando si accorge che è tardi e tralascia altre cose che in altri momenti avrebbero avuto la priorità.
Nei momenti in cui si sente costretto a smettere può mostrare reazioni di sofferenza e insofferenza difficilmente contenibili.
Il tempo in Rete sembra non bastargli mai anche se nega di passare troppo tempo su Internet e sostiene di non passarne abbastanza.
Quando non può collegarsi, la persona può manifestare un atteggiamento di apatia, depressione, irritabilità, stanchezza, malessere psicologico generale. Può avere un'aria distratta e assente. Tende a cercare ogni occasione e scusa per collegarsi anche per brevi periodi. Spesso ciò avviene di nascosto se percepisce interferenze o sa di essere osservato in questa sua attività.
Gli altri interessi perdono pian piano di valore, anche quelli che sono stati per lui sempre molto attraenti.
Internet diventa un interesse in sé e tutte le notizie passano attraverso questa modalità, gli altri canali d'informazione sia giornali che libri, TV, interazione con altre persone non suscitano più un interesse o una modalità di informazione e comunicazione.
Il soggetto inoltre manifesta un ritiro dalle relazioni sociali e preferisce Internet e comunicare attraverso questa modalità, per esempio attraverso i social network, alla compagnia diretta degli amici o dei familiari.
Non parla con chi non è in Rete delle attività svolte on line, può essere evasivo con i famigliari stessi anche per argomenti che non riguardano la Rete e talvolta arrivare a mentire sul proprio attaccamento allo strumento.
 La trascuratezza di sé e di ciò che lo circonda si può verificare con modalità di diversa intensità. Può trascurare gli altri doveri, scolastici, impegni relazionali e sociali, alcune volte anche l'igiene e la cura personale.
A queste si possono affiancare disordini del comportamento alimentare: mancanza d'appetito o discontinuità nell’alimentazione con tendenza a saltare i pasti o a mangiare fuori pasto.
I disturbi fisici classici che possono insorgere a chi passa molto tempo al computer possono essere disturbi del sonno, occhi arrossati, mal di testa, mal di schiena, dolori alle braccia e alle articolazioni, sindrome del tunnel carpale.
Una doverosa precisazione: i segnali elencati diventano preoccupanti se sono molti, regolari, intensi, e se si manifestano solo per Internet e non quando la persona è impegnata in altre cose.
La diagnosi di dipendenza però può essere fatta solo da un professionista esperto in dipendenze comportamentali, psicologo psicoterapeuta o psichiatra.
Qualora si rilevasse un comportamento di dipendenza o di abuso nocivo alla vita personale, relazionale e sociale e la persona fosse disponibile a riconoscere e a voler porre rimedio a questo disagio, il professionista può proporre un programma di terapia mirato.