Dipendenza da
lavoro
Di Annalisa Pistuddi
In queste pubblicazioni cercheremo di mettere luce su un
problema che sembra, a prima vista, essere un prodotto della società dei
consumi e centrato sull’immagine del ruolo sociale piuttosto che sull’essenza
dell’individuo.
Il fattore tempo viene anche valutato, sotto questa luce,
in termini economici e perde il senso della libertà, assumendo valore se
“gestito” in modo da produrre qualcosa di concreto.
Così le emozioni lasciano il posto alle cose e i valori
agli averi, sembra che la condizione di benessere di un individuo e il suo
riconoscimento sociale si sia trasformato in considerazione misurata in
possedimenti.
C’è di più, se ci soffermassimo solo sulla voracità
finanziaria rischieremmo di trascurare una parte importante del problema di
dipendenza dal lavoro, lo stato di malattia.
Negli anni ’70 si inizio’ a parlare di questo tema,
definendo che la persona il cui bisogno di lavorare diventa eccessivo, crea
disagi nelle relazioni, nella famiglia, nella salute fisica e nella sua
integrazione sociale può trovarsi in uno stato da dipendenza da lavoro.
Tale sintomatologia può sottendere anche un disturbo
legato alla sfera psichica dell’individuo ed estrinsecarsi con la
sintomatologia di eccessiva dedizione alle attività lavorative.
Sembra, qualche attento osservatore ha sostenuto, che
possa trattarsi di una delle manifestazioni di un disturbo che assomiglia alla
complusività, con richieste che l’individuo stesso si impone fino ad arrivare
ad annullare gli altri bisogni e le
altre attività.
Questi comportamenti possono essere presenti anche per brevi
periodi della carriera lavorativa oppure essere oscillanti e comparire in
alcuni momenti ma producono comunque un disagio e un’insoddisfazione costante
di fondo per le proprie prestazioni.
Spesso, nelle situazioni che raggiungono un importante
livello di gravità, non si raggiunge il successo sperato e si rimane sempre
nella condizione in cui manca qualcosa per raggiungere il prossimo risultato.
La condizione patologica non sembra assimilabile alla
motivazione di costruire la propria posizione lavorativa e per la quale si
possono fare scelte di rinuncia o di formazione mirata oppure di esperienze
utili alla carriera, spesso nella condizione di malattia l’idea di una pianificazione
di crescita professionale è poco presente e anche poco incisiva.
Il bisogno, sembra essere quello di alleviare sensazioni
spiacevoli circa la propria condizione emotiva, i problemi di autostima, per
citare un esempio, vengono momentaneamente mitigati dall’eccesso del fare che
non riguarda però l’essere.
Sembra essere presente nell’individuo un sottofondo
convincente che riesce a permeare le idee di chi gli sta intorno (famigliari e
amici): sviluppare le capacità lavorative e ciò che il proprio ruolo richiede è
sicuramente la strada che lo può aiutare a trovare anche la realizzazione
personale.
La dipendenza da lavoro viene chiamata anche workaholism, termine mutuato dalla
dipendenza da alcol (alcoholism), chi
ne è affetto si definisce anche workaholic.
Il termine si riferisce alle prime ricerche e si è
evoluto con gli studi effettuati sui casi clinici giunti all’osservazione degli
esperti del settore, nelle moderne calssificazioni si usa l’espressione work addiction.
Ma come per le altre dipendenze non legate all’uso di
sostanze psicoattive sembra avere un’evidenza minore anche nell’ambiente e in
famiglia.
Talvolta viene apprezzato dai datori di lavoro che i
dipendenti siano dediti e affezionati alla loro attività, vengono così
trascurati i casi di sofferenza e di disagio sociale e relazionale che possono
spesso produrre problemi anche all’interno dell’organizzazione aziendale.
C’è da sottolineare che, da qualche decennio e in
particolare in momenti di crisi economica, il lavoro stia assumendo un ruolo
necessario alla sopravvivenza delle famiglie e spesso viene valorizzato il
lavoratore indefesso.
Purtroppo a volte la situazione degenera, producendo in
alcuni casi anche sfruttamento delle mansioni e mancanza di tutela dei diritti
principali del lavoratore.
Alcuni soggetti sembrano avere le caratteristiche di
personalità e di trovarsi nelle condizioni che portano agli eccessi.
C’è da comprendere come mai alcuni sono disponibili ad
eccedere fino ad arrivare a compromettere la propria condizione psico-fisica,
le proprie relazioni e anche la propria intimità e sostenere ritmi frenetici e livelli di
competizione per obiettivi che sono a loro stessi non proprio chiari e
definiti.
A differenza dei cosiddetti carrieristi, i malati non
hanno ben chiaro dove vogliono e possono arrivare e le energie che mettono in
gioco sembrano sempre eccessive rispetto al compito che è stato affidato loro.
Non hanno in mente una pianificazione della propria
carriera, spesso danno l’idea di accontentarsi di piccolo gratificazioni, a
volte sembrano non essere interessati più di tanto agli incrementi del proprio
reddito.
In queste pubblicazioni si vorrebbe intensificare la
ricerca su queste problematiche e trasmettere ai lettori un’idea più chiara di
quale potrebbe essere il confine tra produttività ed eccesso inutile.
Quell’eccesso che sottende una serie di azioni fine a se
stesse e che non hanno un sottofondo di gratificazione per l’individuo ma che
possono servire spesso a colmare delle mancanze emotive.
La diagnosi e la presa in carico dello stato emotivo e
della sofferenza che sottende una dipendenza da lavoro è sempre da demandare
agli specialisti del settore, psicologi psicoterapeuti o psichiatri.
Ci sono situazioni che possono essere migliorate prima
che degenerino e che la sofferenza debiliti il soggetto a tal punto da produrre
un effetto negativo anche sul suo ruolo lavorativo.
E’ difficile che il primo ad accorgersi di questo stato
emotivo sia lo stesso soggetto che manifesta il disagio, pertanto è importante
che nel percorso possano essere coinvolti i famigliari, a volte però si tratta
di casi in cui la solitudine relazionale è proprio uno dei disagi emergenti.
Il pericolo è che la persona perda di vista la propria
vita e che la colmi di compiti ripetitivi senza scopo ma con il fine inconscio
di coprire uno stato emotivo di insicurezza relazionale.
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