giovedì 9 luglio 2020

Dipendenza da cibo: deprivazione ed eccesso


- Annalisa Pistuddi, psicoterapeuta, Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze, ASST Melegnano Martesana
- Jacopo Calderaro, studente L.M. in Psicologia, Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento, Università degli Studi di Pavia

Il cibo è stato associato ad aspetti emotivi fin dalla nascita e l’alimentazione si lega ad altri elementi della quotidianità così tanto da potersi trasformare, in alcuni casi, in oggetto che crea una dipendenza.
Non è indicato come una sostanza che può danneggiare la salute ma può diventare pericoloso se prende le sembianze di qualcosa su cui centrare le proprie difficoltà e utilizzato come riferimento nelle relazioni.
L’ambiente famigliare, in contesti problematici rispetto alle relazioni, pare aver assunto un ruolo fondamentale nei disturbi dell’alimentazione su base psichica.
Dalle ricerche e dall’osservazione sui casi clinici trattati pare che coloro che sono afflitti da dipendenza alimentare siano i figli (in particolare le figlie) delle famiglie benestanti e questo dato pare sia rimasto negli anni piuttosto uniforme in tutto il mondo. Sembra altresì che la diffusione di questa dipendenza sia attribuita a fattori psicologici.
Sembra che siano le femmine a fare da protagoniste nella fase in cui si instaura la malattia, i maschi che sviluppano un rapporto di dipendenza con il cibo sono in misura minore e spesso i casi trattati riguardano il troppo cibo, per le ragazze invece la lotta è sulle piccole quantità.
L’aspetto socio-culturale legato alla moda, che propone un fisico longilineo, può essere stato foriero di un certo comportamento per le femmine ma se tutto arriva fino al rifiuto del cibo deve intervenire qualche altro fattore più incisivo a determinare una simile presa di posizione.
Uno stato mentale che diventa malattia del fisico se si giunge a un preciso stadio di magrezza costruita e può arrivare a uno stadio di autolesionismo pericoloso. Tanto pericoloso da mettere in gioco la vita di alcune ragazze che hanno portato avanti la posizione di rifiuto del cibo che è diventato un comportamento che ha originato la dipendenza.
Sembra che il periodo dell’adolescenza segni l’esordio dei disturbi alimentari in quanto le pressioni ambientali in relazione con le spinte degli istinti possono generare situazioni che creano disordini emotivi e predisposizione alle dipendenze di vario genere.
Se trattiamo di anoressia sappiamo che ciò significa mancanza di appetito ma non è di questo che si tratta nei casi di dipendenza da cibo perché innanzitutto le persone che ne sono affette non mancano proprio di appetito e poi l’interesse per il cibo rimane al centro della patologia.
Coloro che presentano questi problemi palesano un pensiero incessantemente orientato al proprio corpo, al peso e all’immagine, così da trasformare i momenti dedicati all’alimentazione in un vero supplizio costellato da preoccupazione e ansia.
Il desiderio di cambiamento, che non è ben definito ma che sottende un’ideale di magrezza, si concretizza attraverso la rinuncia a mangiare ma non è altro che la ricerca di qualcosa di più interiore che spesso passa attraverso una protesta. Quale può essere migliore contestazione di quella del rifiuto del cibo?
Numerose osservazioni di casi clinici evidenziano che sono le ragazze più belle a manifestare un rapporto difficile con il cibo, spesso i primi segnali sono colti dagli amici che possono diventare una risorsa se riescono a stare vicino a queste persone che nascondono una profonda sofferenza che non riguarda l’aspetto.
Chi rifiuta il cibo rifiuta anche i rapporti umani, cerca in tutti i modi di allontanare gli altri manifestando aggressività oppure scarso interesse ed evitamento delle relazioni e delle situazioni conviviali. Il rifiuto relazionale però in questi casi è mascherato dal problema con il cibo, ciò che gli altri pensano di solito è che la persona che ha dichiarato di sottoporsi a una dieta non frequenti molto le compagnie dei pari per non trovarsi davanti a succulenti pietanze.
I maschi sembrano essere più soggetti alle abbuffate e tendono più frequentemente all’obesità ma anche questo è un problema legato ad aspetti psichici e non alimentari, né riguarda problemi organici.
Anche questa modalità di ipernutrimento ha radici profonde, legate alla percezione di sé in relazione al mondo.
I rapporti con i genitori, in particolare i vissuti del bambino rispetto a queste relazioni, è ormai accertato de numerosi studi che fanno la loro parte nello sviluppo psichico di ogni individuo ma colpevolizzare la famiglia non serve.
Sarebbe utile coinvolgere ciascuno dei conviventi nei progetti di cura, far comprendere come definire il proprio ruolo nel sistema possa avere un valore al fine di rilevare dove e come qualcosa di relazionale non ha funzionato.
La letteratura sui problemi alimentari lancia un allarme riguardo all’età, la fascia più colpita dai disturbi alimentari è l’adolescenza, dai 14 ai 22 anni. Recenti osservazioni cliniche hanno segnalato che l’età di esordio non solo si è abbassata fino agli 8 anni ma si sono rilevati casi preoccupanti in persone di terza età.
Relazioni e comunicazione sono al centro dell’attenzione, ci sono studiosi che definiscono la dipendenza da cibo un disturbo della comunicazione. Forse non è l’unica strada da esplorare per definire e comprendere ma non c’è dubbio che l’avvento di Internet abbia polarizzato l’attenzione e gli scambi di notizie fra le persone, molto di più della televisione in passato.
La comunicazione è il canale attraverso il quale passano le emozioni che si possono comunicare verbalmente oppure con i comportamenti.
Sembra che il rapporto con il cibo si presti come messaggio non verbale, con l’obiettivo voler provocare negli altri l’attenzione rispetto a una sofferenza che non si riesce a comunicare altrimenti, spesso si tratta di un disagio psichico di non lieve entità.
La sofferenza si può riferire a traumi avvenuti in età precoce, che spesso non hanno avuto parola o ascolto. Forse il peggior trauma subito è stato sentire che il proprio dolore non poteva essere considerato, come se fosse trasparente. Così potrebbe essere nato il desiderio di scomparire o di essere più ingombrante.
Il dolore psichico si trasforma in problemi sull’immagine corporea, se si centra tutto lì si devia l’attenzione dai problemi di inadeguatezza interna che diventa però centrale rispetto alla scontentezza per il proprio aspetto, che prevale nonostante il tentativo di controllare i rapporti con gli altri attraverso la propria fisicità.
Si complica così la situazione rispetto alla valutazione della propria immagine e si crea confusione nell’adolescente fra ciò che vede e ciò che pensa vedano e considerino gli altri. Diventa un loop infinito quel desiderio di piacere a tutti e a non tollerare nessuna frustrazione relazionale, l’evidenza del rifiuto da parte di qualcuno o della considerazione marginale diventa un dramma per una persona che attraversa un periodo di fragilità.
Un modo per non fermarsi a pensare alle delusioni è centrare tutto sulla concretezza fisica e del cibo, per non sentire le proprie emozioni perché potrebbero essere troppo coinvolgenti e spaventose, così col tempo i disagi si mostrano attraverso il proprio aspetto che diventa a sua volta spaventoso per gli altri.
Questo meccanismo che non permette di confrontarsi con il proprio dolore psichico è lo stesso che si trova alla base delle dipendenze, in particolare quelle comportamentali.
Ciò che emerge dalla storia del paziente dipendente da cibo che arriva da un professionista per chiedere aiuto è che la sofferenza si sia spostata, invece di provare emozioni dolorose l’attenzione viene deviata su un oggetto concreto. Per quanto riguarda i problemi con il cibo si pensa che la scelta inconscia abbia radici nei vissuti del bambino circa la modalità di nutrimento avvenuta nei primi mesi di vita.
Le ricerche sui disturbi alimentari hanno iniziato a supporre che la figura della madre sia stata centrale in quanto primo oggetto fondamentale, che dà la vita e il nutrimento, e capace di escludere tutto ciò che c’è intorno dalla relazione con il bambino.
Il padre invece pare abbia assunto il ruolo di una figura marginale all’interno della famiglia e pian piano è stato escluso dalla diade madre-bambino. Alcuni padri vengono addirittura disprezzati dalle mogli e relegati a un ruolo subordinato dopo la nascita del primogenito. L’uomo che non si ripropone come figura che fa da ponte tra la famiglia e l’esterno, proteggendo così la relazione madre-bambino dagli eccessi, finisce per soccombere ed essere escluso per un lungo periodo, sentirsi poco utile, rischiando di diventare poco partecipe e incisivo anche nel periodo dell’adolescenza dei figli.
Per molte madri di pazienti il ruolo centrale che hanno sentito e che le ha preoccupate molto è stato essenzialmente quello di offrire nutrimento e in questo modo hanno alleviato le loro principali ansie nell’accudimento del bambino.
In alcune famiglie in cui è emerso un problema con il cibo si è rilevato che i figli hanno il ruolo di essere l’unico collante per la sopravvivenza del matrimonio e spesso questa situazione porta a una confusione di ruoli generazionali.
I problemi causati dal disturbo del comportamento alimentare sono anch’essi una delle modalità disfunzionali che tiene insieme le relazioni in alcune famiglie problematiche che altrimenti avrebbero smesso di essere coese o si sarebbero disgregate.
Questo mette luce anche sull’iperinvestimento nei doveri che i figli problematici esprimono, spesso sono studenti modello e perfezionisti anche se nascondono una bassa autostima e scarsa fiducia negli altri.
Sulla responsabilità che i figli problematici possono sentire ma non esprimere, nel tenere coesa la famiglia con l’espressione della sintomatologia, hanno investito troppo della loro vita emotiva a discapito della considerazione delle proprie sensazioni e della propria evoluzione.
Questo legame diventa, per questi figli, una dipendenza dalle relazioni e dalla propria percezione che può diventare anche con caratteristiche deliranti, se sostiene di poter influire con le proprie azioni sulle relazioni che intercorrono fra i genitori.
Il confine generazionale, in queste famiglie, si è molto affievolito o non esiste più, la sua mancanza genera un disordine mentale che impedisce di pensare i termini astratti e fa credere che ci si possa aggrappare solo alla concretezza delle cose.
Una regressione, per l’adolescente problematico, per non sentire tutta la responsabilità di non essere accettati dagli altri e talvolta anche un elemento di dissapori e discordie fra i genitori in quanto portatore di un disagio.
I genitori di un paziente che presenta una dipendenza da cibo spesso paiono una coppia che abbia simulato un legame ai tempi in cui erano senza figli e sembra che entrambi abbiano esacerbato i loro dissapori solo dopo l’avvento della nascita del primo figlio.
Così la madre può aver avuto l’occasione di crearsi una nuova opportunità relazionale investendo in un’alleanza con il figlio ed escludendo il padre per considerarlo solo come portatore di cose concrete come i soldi per mangiare.

Chi si occupa della dipendenza da cibo e come
I casi delle persone che sviluppano una dipendenza alimentare sono complessi, in particolare se raggiungono un elevato livello di gravità.
Pertanto occorre la presenza di un pool di specialisti dedicati. Le figure centrali nella presa in carico delle persone sono: gli psicoterapeuti, gli psichiatri, i neuropsichiatri infantili, i professionisti esperti in dipendenze, i dietologi, gli endocrinologi e altri specialisti in medicina interna come i ginecologi, i gastroenterologi, gli ortopedici per esempio.
Tutti coloro che, come specialisti della medicina e della psicologia, possono intervenire per il miglioramento della situazione di vita del paziente. Anche i volontari spesso sono presenti nel pool dedicato alla cura, ognuno fa la propria parte ben definita con l’obiettivo di rimettere in piedi queste difficili vite senza venirne divorati.
E’ possibile effettuare ricoveri ospedalieri per alcuni periodi in cui avviene un trattamento medico necessario a prevenire disordini più gravi, si inizia un percorso psicologico e i pazienti vengono anche coinvolti in attività fisiche e in sessioni in cui avviene una rieducazione all’alimentazione. 
Alcune comunità terapeutiche hanno avviato programmi dedicati ai disturbi alimentari e lavorano in contatto con ospedali e associazioni. La permanenza nelle comunità serve per avviare un lavoro più centrato sugli aspetti psicologici ed educativi, per accompagnare i pazienti verso la possibilità di diventare autonomi dal punto divista emotivo.
Spesso questi pazienti soffrono per il giudizio altrui, non tollerano di non essere considerati al centro dell’attenzione e sperano di poter modificare l’opinione che gli altri potrebbero avere di loro. Il miraggio che inseguono è di non dover continuare a contare sugli altri ma sperano che gli altri dipendano da loro. Situazione di difficile realizzazione.
Il problema del giudizio esterno nei propri confronti e la corsa a modificarlo senza alcuna presa di coscienza che non è altro che questo meccanismo che crea la dipendenza relazionale è un altro argomento che sarà affrontare nel corso di un trattamento.
Nelle ASL sono presenti ambulatori con professionisti formati sull’argomento che si trovano nei dipartimenti di prevenzione, dipartimenti dipendenze e dipartimenti per le attività socio sanitarie integrate che contengono i consultori famigliari.
Altresì negli ospedali sono presenti ambulatori dove svolgono attività psichiatri, psicologi e neuropsichiatri che possono valutare e predisporre o indicare una modalità per un progetto di cura per casi come questi.
La via da seguire è innanzitutto comprendere se di disturbo alimentare si tratta e di che tipo oppure se la sintomatologia si riferisce a un’organizzazione di personalità dove il cibo riguarda una parte della patologia e non arriva a un’evoluzione centrata solo sull’alimentazione.
Per una prima ipotesi il medico e il pediatra di base possono essere i punti di riferimento più vicini a cui rivolgersi per avere delle indicazioni.
L’offerta di strutture e di professionisti è variegata e in Italia gli sviluppi su questo argomento hanno trovato interesse ed evoluzione negli ultimi decenni così come gli specialisti di varie discipline della sanità, sia pubblica che privata, hanno avuto modo di accostarsi a queste problematiche.



Manifestazioni, problemi che si generano e modi di affrontarli
La dipendenza da cibo può avere diverse manifestazioni, non saranno classificate e descritte in modo particolareggiato in questo articolo. Ciò che sembra più urgente e importante è comprendere che celano una sofferenza enorme e in quale modo sia sorta, come si sia sviluppata e quali possono essere le vie migliori affinché si conduca la persona verso un sollievo.
Chi ne è affetto diventa una vittima del cibo e delle modalità con cui si accosta ad esso, tutti gli studi evidenziano che questo tipo di disagio colpisce molte persone che provengono da situazioni sociali apparentemente tranquille e insospettabili.
E’ qui che si annida una sofferenza che non trova le parole, spesso si tratta di persone su cui sono state poste aspettative che loro stesse sentono come enormi, si sentono pertanto inadeguate e costrette a nascondere la propria imperfezione. Un grande problema che non riescono a sopportare è non poter appagare chi le ha messe al centro dei propri desideri senza considerare i loro.
Non possono protestare con le parole perché verrebbero emarginate dal proprio ambiente, la lotta per sopravvivere diventa duplice perché la propria immagine è fragile, sia verso l’esterno che in famiglia dove sono nate le aspettative nei loro confronti.
Non si può né dire né tantomeno pensare di poter fallire, quindi la corsa è inevitabilmente verso la perfezione.
Nell’anoressia, per esempio, la perfezione viene spesso idealizzata nel riuscire a fare a meno di tutto, si concentra sul cibo ma il desiderio recondito sarebbe di poter fare a meno di essere vittime del giudizio degli altri.
Qui il problema sembra centrato sull’autostima, sull’immagine di sé che però viene costantemente messa a repentaglio perché la persona si sente spesso svalorizzata, talmente enormi sono state percepite le aspettative degli altri nei suoi confronti. Ma la stima di sé non è l’unica difficoltà.
Qualche paziente che rifiuta il cibo immagina così di sparire dalla possibilità che le vengano fatte delle richieste a cui non pensa di saper rispondere adeguatamente, come se non potesse comunicare a parole il proprio disaccordo.
Non poter usare le parole è un altro problema enorme che interviene nei casi in cui non è possibile contraddire gli altri, come se fosse scontato che il linguaggio serva solo per scontrarsi e non per incontrarsi.
Le difficoltà di comunicazione e di relazione sottendono il disagio di non poter trovare negli altri persone disponibili all’ascolto, i genitori spesso sono vissuti come richiedenti e centrati sul gratificare le proprie aspettative, non disponibili ad ascoltare i desideri dei figli e spesso nemmeno quelli del proprio partner.
Con il radicarsi di questi vissuti i ragazzi non possono far altro che comunicare il proprio disagio attraverso un comportamento. L’alimentazione è il comportamento che, con il risultato scolastico, ha più evidenza e più possibilità di destare preoccupazione negli adulti delle famiglie problematiche.
Alcuni accadimenti rimangono situazioni considerate a livello piuttosto superficiale finché non emerge un problema che “pesa” in famiglia. Quel problema che può sfociare in malattia, in manifestazioni di sofferenza fisica ed essere evidente anche agli occhi di tutti che qualcosa nell’adolescente sta succedendo in modo prorompente.
Ecco allora che ci si accorge che qualcosa non è andato per il verso giusto e che la situazione si protrae da qualche tempo, tutto viene talvolta confuso con qualche problema non ben definito ma che si può riferire alla crescita, per essere ancora una volta tutti evitanti rispetto al dolore psichico.
Purtroppo però quando i genitori si accorgono che la situazione è precipitata si spaventano e molti ricorrono alle richieste di interventi magici o salvifici della situazione, senza comprendere che sono anche loro stessi a dover mettersi in gioco per migliorare la situazione problematica che coinvolge tutti.
A questo punto le madri che si sono sempre considerate molto presenti in famiglia si sorprendono per la loro inefficacia e si annullano nei sensi di colpa; i padri relegati in un ruolo marginale non riescono a trovare un modo diverso di proporsi.
Evidentemente non sono attrezzati per affrontare il problema da soli, in primo luogo perché non sanno riconoscerlo né misurarne l’entità. Per questo vanno innanzitutto aiutati a comprendere che cosa sta succedendo e come si può trattare il problema.
I casi di anoressia e di bulimia sottendono problematiche intrapsichiche e relazionali che vanno riconosciute, non solo dagli specialisti ma anche dagli attori della patologia, a cominciare dalla famiglia che dovrà, se disponibile, essere parte del processo terapeutico del paziente.
Va tenuto conto della complessità dei casi, non solo dal punto di vista del sistema famigliare ma anche considerate le storie personali di ognuno dei membri. E’ importante che emergano le loro fantasie e aspettative, che hanno avuto in passato, che hanno nell’attualità e rispetto al futuro di tutti e nei confronti della malattia che ha colpito uno di loro.
Considerare una visione globale della malattia è un concetto moderno di trattamento, agli esordi degli studi sui disordini alimentari non veniva valorizzato il ruolo dell’ambiente famigliare.
Le famiglie venivano coinvolte in modo marginale, dando loro semplici compiti simili a ricette anche piuttosto imprecise, si diceva loro di essere accomodanti e gentili con il paziente e di cercare di non far salire la tensione domestica. Ciò sottendeva l’ipotesi che il paziente avesse una bassa sopportazione dello stress. Ma evidentemente non era sufficiente dal punto di vista di una lettura completa del disagio.
Si è poi man mano posto l’accento sul ruolo degli altri membri della famiglia, sui comportamenti indotti e reciprocamente influenzanti, sui confini generazionali e la loro natura. I famigliari sono stati coinvolti, ove possibile, nel processo terapeutico, senza intenti colpevolizzanti ma per far vivere loro il problema che fino ad allora sembrava celato e renderli parte attiva di una possibile evoluzione della situazione.
Oggi è evidente che per intervenire in un problema che riguarda una dipendenza sarebbe importante che i componenti dell’ambiente famigliare in primo luogo e anche altre persone affettivamente legate al paziente potessero, in qualche modo, partecipare al percorso.
I problemi da affrontare, insieme a quello principale che emerge riguardo al cibo, sono quelli di comunicazione, di relazione, di linguaggio ma non bisogna assolutamente tralasciare di osservare il processo del pensiero, come si genera e come prende forma.
Spesso si è evidenziato come le concezioni parentali dei bisogni dei figli potessero portare il bambino a interpretare con confusione i segnali degli adulti. Pertanto anche i segnali generati dal proprio corpo, come per esempio in questi casi la sensazione di fame e di sazietà, potrebbero essere stati terreno di malintesi e incomprensioni fin dai primi mesi di vita del bambino.
Molti genitori si sono attenuti, nell’educazione dei propri figli, nel trasmettere credenze e modalità indiscutibili, apprese dai propri genitori e mai messe in discussione o da qualche manuale pedagogico spesso interpretato con rigidità, invece di sperimentare se stessi nell’ascolto del proprio bambino.
Questo modo, se posto con inflessibilità per timore di sperimentarsi in una dualità interattiva nuova per la madre e in una complicità condivisa nei valori per il padre, ha spesso dato luogo a fissità che hanno costruito incomprensioni reciproche e distorsioni della formazione della personalità del bambino e nel suo sviluppo intaccando anche lo stadio dell’adolescenza.
Per ricostruire la fiducia reciproca nei membri della famiglia e per poter aiutare il paziente a ristabilire una modalità diretta e sentita come desiderio che può nascere all’interno di sé, e così proposto al mondo, occorrono i contributi degli specialisti che si possono dedicare al problema collaborando fra loro con l’obiettivo un progetto di guarigione condiviso e costruito per il paziente, fatto di tappe che si concatenano e si completano.
Il problema che si è riscontrato nei progetti di cura riguarda non solamente la ricerca di ripristinare situazioni in cui il paziente si ritrovi a poter riconoscere e ridiscutere i propri desideri e bisogni all’interno della famiglia e del suo spazio sociale.
Una parte importante è, in particolare per la psicoterapia, considerare la sofferenza e i profondi disagi emotivi del paziente che fino ad un certo punto sono stati scotomizzati dal comportamento sintomatico che ha deviato la sua attenzione e quella degli altri sul cibo.
Questi sono casi per cui lavorare in modo profondo e duraturo dal punto di vista del trattamento psicoterapeutico, in particolare se sono casi in cui la patologia alimentare persiste da tempo e ha radici ben strutturate nel mondo interno della persona sofferente.
Spesso si consiglia (oltre al coinvolgimento famigliare) un lavoro centrale dal punto di vista terapeutico basato su una psicoterapia individuale con ritmi intensi che sarà possibile durante, ma sarà importante proseguire con diligenza dopo, un periodo di ricovero che avrà ristabilito le condizioni fisiche del paziente.
Non stiamo parlando di casi che hanno lievi e recenti manifestazioni disfunzionali con il cibo, le quali vanno allo stesso modo considerate e comprese ma come situazioni per cui si presume un livello evolutivo e di guarigione di gran lunga meno problematico e tortuoso di quelle gravi e persistenti nel tempo.
In qualsiasi caso una diagnosi di personalità, effettuata da uno specialista, è uno step fondamentale per la comprensione del paziente e dei suoi bisogni.
Alcuni problemi che accomunano questi casi riguardano la percezione distorta delle emozioni, il problema dell’immagine in particolare quella del corpo, l’autostima, la fiducia in sé e nell’altro, la percezione dell’incapacità di manifestare se stessi.
In alcuni casi la sofferenza e la preoccupazione dei famigliari emerge in modo prorompente e i terapeuti sentono di suggerire anche ad alcuni di essi un percorso di psicoterapia individuale. Alcuni membri della famiglia, che hanno avuto all’inizio o hanno pensato di aver solo il ruolo di accompagnatori, scorgono il bisogno personale di comprendere se stessi all’interno di un sistema problematico.
La motivazione spesso è accesa proprio nei genitori di questi pazienti e non è difficile incontrare il loro accordo a intraprendere, ognuno per sé, il proprio percorso individuale. Ciò potrebbe avvenire dopo aver fatto esperienza di un percorso famigliare o di coppia.
Gli obiettivi base di un percorso di cura potrebbero essere riassumibili nel ripristinare il peso adeguato e il modello di nutrizione che consenta di vivere senza effetti collaterali, nel raggiungere un adattamento soddisfacente nella famiglia, a scuola o al lavoro, nelle relazioni con i coetanei e nel sociale.
Un livello superiore di evoluzione riguarda l’affrontare i disturbi del comportamento, dell’affettività e del pensiero. Aver compreso che il trattamento psicoterapico può essere una risorsa da considerare in momenti di difficoltà della vita e soprattutto averne beneficiato per l’evoluzione della propria personalità sono altresì tappe di più alto livello che si raggiungono con l’aiuto della consapevolezza e di un lavoro clinico ed emotivo approfondito.

Bibliografia
Bruch H., Patologia del comportamento alimentare, Feltrinelli, Milano, 1977
Bruch H., La gabbia d’oro, Feltrinelli, Milano, 1983
De Clercq F., Fame d’amore, Rizzoli, Milano, 1998
Morelli R., Come dimagrire senza soffrire, Mondadori, Milano, 2003
Minuchin S. e altri, Famiglie psicosomatiche. L’anoressia mentale nel contesto famigliare, Astrolabio, Roma, 1980
Recalcati M., L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, Milano, 2007

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